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PERSONAGGI MINORI DEL RISORGIMENTO MOLISANO ( Alla ricerca dei garibaldini scomparsi ) )

  • Amoruso Ambrosio
  • Baldini Giovanni
  • Caropreso Salvatore
  • D’Amicantonio Francesco
  • de Nigris Cesare e Carlo
  • de Sanctis Nicolamaria
  • di Toro Nicolangelo nato a Campobasso
  • Filipponi Errico
  • Flocco Tommaso e Michelangelo
  • Franceschini Giustino
  • Latessa Salvatore
  • Napolitano Giovanni
  • Rinaldi Francesco Paola
  • Roccia Marco
  • Suriani Giuseppe
  • Tavove Giovanni
  • Terzano Andrea
  • Zita Gaetano ed Eugenio
  • Zoccolo Raffaele

Formazioni garibaldine

Elenco dei volontari Molisani che presero parte ai fatti del Settembre-Ottobre 1860

VOLONTARI DEL SANNIO

Capitanati dal Sig. D. Giacomo de Sanctis sotto la dipendenza del Governatore de Luca nelle spedizioni d’Isernia, di Gallo, di Cantalupo, Rionero,Castel di Sangro, Agnone ed altri paese limitrofi al Sannio ed agli Abruzzi

Stato nominativo della Legione Sannitica comandata dal Maggiore Francesco de Feo

Legione del Matese-stato nominativo 25.08.1860-08.03.1861  Giovanni Petella

Battaglione del Matese – Stato della forza -Maggiore Bonaventura Campagnano – Roccaguglielma 10 dicembre 1860

Cacciatori dell’Etna – distaccamento Bentivegna  – Colonna mobile in Isernia – Colonnello Francesco Nullo

ESERCITO MERIDIONALE – Volontari Molisani individuati

Campagne Militari Risorgimentali – Volontari Molisani

Esercito Italiano – Cacciatori Franchi Molisani

Esercito delle Due Sicilie

Esercito delle Due Sicilie

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Reale Esercito di Sua Maestà il Re del Regno delle Due Sicilie
Stemma dell'Esercito delle Due Sicilie
Stemma dell’Esercito delle Due Sicilie
Descrizione generale
Attivo 17341861
Nazione Regno di Napoli,
Regno di Sicilia,
Regno delle Due Sicilie
Dimensione 72.000 soldati in tempo di pace,
128.000 in tempo di guerra
Battaglie/guerre Battaglia di Velletri,
Guerre della Prima coalizione,
Assedio di Tolone,
Guerre della Seconda coalizione,
Guerre della Terza Coalizione,
Prima guerra di indipendenza italiana,
Battaglia del Volturno,
Battaglia del Garigliano,
Assedio di Gaeta
Onori di battaglia Prima guerra di indipendenza italiana,
Battaglia del Volturno,
Assedio di Gaeta
Comandanti
Comandanti degni di nota Niccolò di Sangro,
Guglielmo Pepe,
Florestano Pepe,
Carlo Filangieri,
Vito Nunziante,
Paolo Avitabile,
Girolamo Calà Ulloa,
Giuseppe Salvatore Pianell,
Carlo Afan de Rivera,
Giosuè Ritucci,
Carlo Mezzacapo,
Luigi Mezzacapo
Simboli
Bandiera Bandiera reale due sicilie.png

T. Battaglini, L’organizzazione militare del Regno delle Due Sicilie. Modena: Società tipografica modenese, 1940.

Voci su unità militari presenti su Wikipedia
« Il soldato napolitano è vivace, intelligente, ardito, ed in uno assai immaginoso; e però facile ad esaltarsi e correre alle imprese più arrischiate, ma pur facile a scorarsi. Si sottomette agevolmente alla disciplina, allorché questa muova da un potere giusto, forte e costante. L’istruzione elementare delle diverse armi è eccellente: esse manovrano con esattezza e speditamente, sì separate che unite; »
(Carlo Mezzacapo, Rivista Militare, anno primo – volume primo, Torino 1856)

L’Esercito delle Due Sicilie, spesso citato nei testi come Real Esercito oEsercito napoletano o, impropriamente, Esercito borbonico, fu la forza armata terrestre del nuovo Stato indipendente creato dall’insediamento della dinastia borbonica nel meridione d’Italia in seguito agli eventi dellaguerra di successione polacca. Il 1734, anno in cui il corpo di spedizione diCarlo di Borbone conquistò le province napoletane e siciliane strappandole al vicereame austriaco, segnò infatti anche la creazione dei primi reggimenti interamente “nazionali”, affiancati ai reggimenti stranieri con cui l’Infante don Carlo era disceso in Italia.[1]

La vicenda di questo esercito si inserisce naturalmente nello stesso spazio di tempo in cui visse la dinastia di cui fu sostegno: dal 1734 al 1861. Tuttavia, in seguito alla restaurazione ed alla successiva istituzione delRegno delle Due Sicilie, tale forza armata fu profondamente riorganizzata, inglobando anche gli elementi dell’esercito napoletano di età napoleonica. Dopo il 1816, quindi, fu adottata la denominazione ufficiale di Reale Esercito di Sua Maestà il Re del Regno delle Due Sicilie; quest’ultimo, assieme all’Armata di Mare, costituiva le forze armate del Regno delle Due Sicilie[2].

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Le radici spagnole[modifica | modifica wikitesto]

Fanteria dell’Impero spagnolo, 1680

Sebbene l’Esercito delle Due Sicilie sia sorto solo nel 1734, le istituzioni militari napoletane e siciliane vantano una storia molto più antica, che pone i suoi fondamenti nell’organizzazione di un esercito “demaniale” (cioè statale e non più feudale) da parte di Ferrante d’Aragona nel 1464[3]. In particolare il periodo vicereale spagnolo (1503-1714) segnò profondamente le consuetudini militari del successivo periodo borbonico. Durante questo arco di tempo i soldati dell’Italia meridionale furono infatti coinvolti in quasi tutte le vicende militari dell’Impero Spagnolo (dalle guerre di Carlo V alle guerre delle Fiandre, dalle campagne coloniali in America alla guerra dei trent’anni), spesso dando prova di grande valore e fedeltà alle autorità imperiali[4]. I capitani, appartenenti alla migliore nobiltà feudale delle province napoletane e siciliane, seppero bene inquadrare e preparare i sudditi dei due viceregni alla guerra, ubbidendo al fermo indirizzo politico dato dai monarchi di Spagna.

Nel successivo periodo borbonico però, con la riconquista dell’indipendenza, la nobiltà perse gradualmente questo carattere militare, cedendo il passo alla nuova politica accentratrice di impronta dinastica. L’obiettivo dei Borbone era infatti quello di sostituire la fedeltà ai vecchi comandanti nobili, che avevano servito per oltre 200 anni gli Asburgo, con un’esasperata fedeltà alla nuova corona nazionale. Questo progressivo sganciamento dalle obsolete tradizioni iberiche, promosso dalle riforme volute da Ferdinando IV, provocò nel XVIII secolo uno stato di “disorientamento” all’interno delle istituzioni militari borboniche che sfociò in un succedersi quasi frenetico di ristrutturazioni e riforme. Questa irrequieta evoluzione delle strutture militari delle Due Sicilie si fermò solo con l’ascesa al trono di Ferdinando II, il quale seppe finalmente stabilizzare e razionalizzare gli ordinamenti militari del regno, dandogli un’impronta definitivamente nazionale e dinastica. Tuttavia l’evoluzione del quadro politico europeo e napoletano di quegli ultimi 30 anni, che coinvolse a pieno l’esercito delle Due Sicilie, fece sì che il dissenso politico si rivolgesse direttamente contro la stessa casa regnante borbonica.[5]

L’insediamento della dinastia borbonica[modifica | modifica wikitesto]

Carlo di Borbone assedia Gaeta

Nel 1734 si ebbe il passaggio del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia dal dominio asburgico a quello borbonico per effetto della guerra di successione polacca. Nei due secoli precedenti l’Italia meridionale e la Sicilia furono parte dell’Impero Spagnolo come vicereami; successivamente, nel 1707, il regno di Napoli passò all’Austria, nell’ambito della guerra di successione spagnola, mentre il regno di Sicilia venne donato a Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1713 con la pace di Utrecht.

L’autonomia dei regni di Napoli e di Sicilia dalla corona spagnola, sebbene i due regni rimanessero ancora legati a quest’ultima per motivi dinastici, fu ottenuta grazie all’azione diplomatica di Elisabetta Farnese, seconda moglie del re di Spagna Filippo V. Elisabetta Farnese rivendicò i territori italiani per i propri figli, esclusi dalla successione al trono spagnolo da Don Ferdinando, figlio di primo letto di Filippo V. Nel 1734, pertanto, l’infante don Carlos, primogenito di Elisabetta Farnese, assunse le corone di Napoli e di Sicilia col nome di Carlo di Borbone dando origine di fatto ad un regno autonomo, anche se “formalmente” il Regno delle Due Sicilie (unione dei due regni, di Napoli e Sicilia) nacque solo nel 1816. Per poter prendere possesso del nuovo regno, Carlo di Borbone giunse in Italia già tre anni prima, nel 1731, accompagnato da oltre 6.000 soldati spagnoli, valloni e irlandesi, guidati da Manuel d’Orléans, conte di Charny, a cui si aggregarono altrettanti fanti e cavalieri italiani guidati da Niccolò di Sangro, i quali contribuirono alla decisiva vittoria di Bitonto il 25 maggio 1734.

Carlo di Borbone[modifica | modifica wikitesto]

Carlo di Borbone a cavallo, ritratto diFrancesco Liani. Napoli, museo di Capodimonte.

Conquistato il regno il 10 maggio 1734, Carlo di Borbone diede un primo ordinamento all’esercito regio: le forze militari vennero aumentate a 40 battaglioni difanteria, 18 squadroni di cavalli (nove di dragoni e nove di cavalleria propriamente detta), un corpo considerevole di artiglieri e un altro di ingegneri.

La data di nascita ufficiale dell’esercito napoletano va collegata però alla legge del 25 novembre del 1743, con la quale il re Carlo dispose la costituzione di 12reggimenti provinciali, tutti composti da cittadini del Regno, affiancati da reggimenti con soldati svizzeri, valloni e irlandesi. Furono create anche delle compagnie di fucilieri da montagna sul modello dei micheletti catalani, lontane antenate delle truppe alpine, le cui caratteristiche ordinative, di armamento e di equipaggiamento ne fecero il primo modello del genere nella storia dell’Italia militare moderna. Nella primavera dell’anno successivo il neonato esercito subì il primo collaudo, contro gli austriaci, alla battaglia di Velletri. Essa segnò la sua prima, grande vittoria, cui parteciparono reggimenti interamente napoletani, come il “Terra di Lavoro” (il quale dopo la battaglia poté fregiarsi del titolo di “Real”, riservato ai soli reggimenti veterani), comandato dal duca di Ariccia, che ressero il confronto con i reggimenti stranieri di più antica tradizione.

Questa battaglia fu l’apice della guerra di successione austriaca in Italia, in seguito alla formazione di un’alleanza tra Austria,Gran Bretagna e Regno di Sardegna volta a spodestare Carlo di Borbone dal trono di Napoli. Questo compito fu affidato all’esercito austriaco, che, con un’armata comandata dal principe von Lobkowitz, dopo un lungo assedio, la notte del 10 agosto 1744 attaccò di sorpresa i napoletani stanziati nella città di Velletri. La battaglia vide inizialmente il successo degli austriaci, che tuttavia non riuscirono a scacciare definitivamente le truppe del re Carlo dalla cittadella. La reazione napoletana non tardò ad arrivare e le truppe borboniche, con un’iniziativa del conte di Gages e dello stesso re, riuscirono infine a sconfiggere l’armata austriaca, costretta a ritirarsi rovinosamente anche in seguito all’arrivo di rinforzi napoletani da Gaeta e dagli Abruzzi.[6]

L’esercito del nuovo regno carolino, di impronta schiettamente spagnola negli ordinamenti e nelle tradizioni, era così composto:

GUARDIA REALE

  • Guardie del corpo
  • Compagnie Alabardieri di Napoli e di Sicilia
  • Reggimento Reali Guardie Svizzere
  • Reggimento Reali Guardie Italiane

FANTERIA

  • Reggimenti Veterani
    • Re
    • Regina
    • Real Borbone
    • Real Napoli
    • Real Italiano
    • Real Palermo
    • Real Farnese
  • Reggimenti Provinciali (o Nazionali)
    • Real Terra di Lavoro
    • Molise
    • Calabria Citra
    • Calabria Ultra
    • Abruzzo Citra
    • Abruzzo Ultra
    • Capitanata
    • Basilicata
    • Bari
    • Principato Citra
    • Principato Ultra
    • Otranto

Trionfo di Carlo di Borbone alla battaglia di Velletri, Francesco Solimena, 1744, Reggia di Caserta.

Forza dell’Esercito delle Due Sicilie nel 1755

  • Reggimenti Siciliani
    • Val Demone
    • Val di Noto
    • Val di Mazara
  • Reggimenti Esteri
    • Jauch (svizzero)
    • Wirtz (svizzero)
    • Tschoudy (svizzero)
    • Hainaut (vallone)
    • Borgogna (vallone)
    • Namur (vallone)
    • Anversa (vallone)
    • Real Macedonia (albanese)
  • Reggimento Fucilieri di montagna

CAVALLERIA

  • Reggimenti di Linea
    • Re
    • Rossiglione
    • Napoli
    • Sicilia
  • Reggimenti Dragoni
    • Regina
    • Tarragona
    • Borbone
    • Principe

ARTIGLIERIA

  • Reggimento Reale Artiglieria
  • Compagnie Artiglieri Provinciali
  • Accademia di Artiglieria

CORPO DEGLI INGEGNERI

VETERANI

Ferdinando IV[modifica | modifica wikitesto]

Giovanni Acton, Ministro della Guerra e della Marina

Nel 1759 Carlo di Borbone salì al trono di Spagna col nome di Carlo III; a Napoli gli succedette il suo terzogenito Ferdinando, di soli 9 anni[7], sotto un consiglio di reggenza in cui si distingueva il ministro Bernardo Tanucci. Negli anni successivi il riformismo del Tanucci in campo militare fu limitato da Maria Carolina, divenuta nel 1768 regina di Napoli, la quale nel 1776 riuscì a defenestrare il Tanucci e favorire l’ascesa dell’ammiraglio Acton, a cui nel1778 fu affidato il Ministero della Guerra.

Negli ultimi anni del regno di Carlo III, a causa del lungo periodo di pace vissuto in Italia, le cure per l’Esercito furono trascurate e la forza armata continuò ad essere regolata da ordinamenti ormai superati. Altro fattore che condizionava l’evoluzione dell’Esercito era la relativa facilità con cui era possibile difendere i pochi punti di accesso della frontiera terrestre del reame, a partire dai Presidi di Toscana, vero e proprio antemurale del regno, fino alle poderose piazzeforti di Gaeta, Capua, Civitella e Pescara, che sbarravano la strada a chi intendesse penetrare dal Lazio e dagli Abruzzi. Pochi punti deboli erano presenti nella frontiera napoletana, tra questi principalmente le Gole di Antrodoco, ma nonostante la disponibilità di risorse finanziarie e la presenza di popolazioni fedeli e bellicose alla frontiera, non si intraprese mai una vera e propria opera di difesa totale dei confini terrestri.[8] Tale stato di cose si protrasse per alcuni anni anche con il nuovo sovrano Ferdinando IV, finché la regina Maria Carolina non si fece promotrice del potenziamento e del sostanziale rinnovamento delle forze armate delle Due Sicilie, avvalendosi dell’ammiraglio John Acton.

Acton attuò una serie di riforme dell’apparato militare del regno che tuttavia, al momento dell’invasione napoleonica del Reame, non erano ancora totalmente compiute. Per quanto riguarda l’esercito, l’Acton cercò di migliorare la preparazione degli ufficiali eliminando alcuni corpi con funzioni di parata, fondando l’accademia della Nunziatella e incrementando gli scambi formativi con l’estero (in particolare con la Prussia e la Francia). Acton introdusse delle utili innovazioni (favorì leconoscenze topografiche finanziando fra l’altro Rizzi Zannoni[9], costruì nuove strade, eccetera); le forze armate, così rinnovate, sostennero più che degnamente la loro prova del fuoco all’assedio di Tolone, nel quadro della prima alleanza con l’Inghilterra contro la Francia rivoluzionaria. Seimila soldati napoletani parteciparono alla difesa della città e furono gli ultimi a reimbarcarsi. Il corpo di spedizione rientrò in patria il 2 febbraio 1794, avendo avuto circa 200 caduti e 400 feriti.

Nel biennio 1796-1798 si ricorda in particolare l’ottima prova data dalla divisione di cavalleria napoletana, formata dai reggimenti “Re”, “Regina”, “Principe” e “Napoli”, nelle operazioni della Campagna d’Italia contro i francesi. I cavalieri napoletani, comandati dal brigadiere Ruitz, ricevettero lodi sia dagli alleati austriaci che dai nemici francesi (tra cui lo stessoNapoleone Bonaparte).[6]

Cavalleria napoletana in Lombardia (Quinto Cenni)

Il successo francese nell’Italia del nord portò alla formazione di unaSeconda Coalizione antifrancese a cui aderì, su particolare sollecitazione della regina Maria Carolina, nuovamente il regno borbonico. Le truppe napoletane, guidate dal generale austriaco Karl Mack von Leiberich, nell’autunno del 1798 invasero la Repubblica Romana andando ad occuparne la capitale e reinsediandovi il Papa. Qui l’esercito borbonico riportò alcuni successi iniziali che costrinsero il generale francese Championnet ad una breve ritirata oltre il Tevere. ARoma il generale Mack dispose le truppe borboniche in maniera disomogenea, rendendo di fatto difficoltosa un’eventuale difesa della città. Il 5 dicembre 1798 i generali Championnet e Macdonaldpassarono alla controffensiva, riportando una schiacciante vittoria che ebbe come conseguenze la rioccupazione di Roma da parte dei francesi e lo sbandamento di gran parte dell’esercito napoletano. Questa sconfitta provocò l’occupazione francese di Napoli e la fuga di Ferdinando IV in Sicilia. L’ingresso delle truppe francesi a Napoli fu caratterizzato da una dura repressione della reazione legittimista della plebe cittadina (i cosiddetti “lazzari”). Si ebbe così la nascita della Repubblica Partenopea, guidata da alcuni dei più celebri intellettuali del tempo.

Ferdinando IV, rifugiatosi in Sicilia, incaricò il cardinale Fabrizio Ruffo di organizzare la crescente resistenza antifrancese sviluppatasi nel frattempo tra i ceti più poveri delle province continentali (specialmente nelle Calabrie), per formare un’armata in grado di riconquistare il Regno di Napoli. Questa armata di popolani, a cui fu dato il nome di Esercito della Santa Fede, riuscì in breve tempo a riconquistare le Calabrie sfruttando le grandi difficoltà dell’occupante francese nel controllo del territorio. Ai “sanfedisti” si aggiunsero ben presto altri reparti stranieri della coalizione antifrancese che resero più facile la riconquista delle province napoletane. Approfittando dell’invasione russa dell’Italia settentrionale, e del conseguente decremento delle truppe francesi a Napoli, l’esercito sanfedista il 13 giugno 1799 riprese il controllo della capitale, riportando i Borboni sul trono di Napoli.

Grazie alla spedizione austro-russa nell’Italia settentrionale ed alla conseguente ritirata dell’Armee de Naples oltre il Po, le truppe napoletane e sanfediste si spinsero nuovamente in territorio pontificio con l’intenzione di occupare parte del Lazio e delle Marche come risarcimento per l’invasione francese, anche grazie alla collaborazione di bande locali aggregate all’esercito del cardinale Ruffo. Nonostante l’accordo diplomatico raggiunto con la Russia, nell’autunno del 1799 i territori pontifici furono occupati dagli austriaci, che ripristinarono la frontiera preesistente (nonostante i reclami del governo borbonico).[10]

Nel Regno di Napoli l’eredità della guerra civile fu più pesante che nel resto d’Italia. Il potere acquisito dalle truppe sanfediste, capeggiate spesso da famigerati briganti, fu causa di crimini e violenze perpetrate indiscriminatamente contro i “giacobini” e contro le stesse autorità reali, che cercavano di ristabilire l’ordine politico e sociale. Il re cercò di arginare il problema includendo molte delle “masse” sanfediste nel nuovo esercito napoletano, nonostante l’opposizione dei generali.[11]

Seguì un breve periodo di pace, dominato da una politica diplomatica instabile nei confronti delle potenze contrapposte e da violente repressioni nei confronti dei liberali coinvolti nell’esperienza repubblicana del 1799.

Nel 1805 l’Esercito delle Due Sicilie contava i seguenti reparti[12]:

CASA REALE

  • 2 Compagnie di Cacciatori Reali
  • Compagnia delle Reali Guardie del Corpo
  • Compagnia degli Alabardieri di Napoli
  • Compagnia degli Alabardieri di Sicilia
  • Reggimento Granatieri Reali

FANTERIA DI LINEA

Ufficiale di fanteria in cappotto (1800)

  • Reggimento Real Ferdinando
  • Reggimento Real Carolina I
  • Reggimento Principe Reale II
  • Reggimento Principessa Reale
  • Reggimento Reali Calabresi
  • Reggimento Abbruzzi
  • Reggimento Albania (estero)
  • Reggimento Alemagna (estero)
  • Reggimento Principe Reale I
  • Reggimento Real Carolina II
  • Reggimento Reali Sanniti
  • Reggimento Reali Presidi
  • Reggimento Valdimazzara I (siciliano)
  • Reggimento Valdimazzara II (siciliano)
  • Reggimento Valdemone (siciliano)
  • Reggimento Valdinoto (siciliano)

FANTERIA LEGGERA

Cannoni napoletani del Regolamento 1792. 1) “il Ferdinando” da 24 – 2) “il Leopoldo” da 12 – 3) “l’Alberto” da 4 – 4) “il Francesco” da 16

  • Battaglione Cacciatori Campani
  • Battaglione Cacciatori Appuli
  • Battaglione Cacciatori Calabri
  • Battaglione Cacciatori Aprutini
  • Battaglione Cacciatori Albanesi
  • Battaglione Cacciatori Sanniti
  • Battaglione Cacciatori Marsi
  • Battaglione Fucilieri di montagna
  • Battaglione Cacciatori Valdimazzara (siciliano)
  • Battaglione Cacciatori Valdemone (siciliano)

CAVALLERIA DI LINEA

  • Reggimento Cavalleria Re
  • Reggimento Cavalleria Regina
  • Reggimento Cavalleria Real Principe I
  • Reggimento Cavalleria Real Principe II
  • Reggimento Cavalleria Real Principessa
  • Reggimento Cavalleria Valdimazzara (siciliano)
  • Reggimento Cavalleria Valdemone (siciliano)
  • Reggimento Cavalleria Valdinoto II (siciliano)

CORPO REALE D’ARTIGLIERIA E GENIO

  • 1º Reggimento Artiglieria Re
  • 2º Reggimento Artiglieria Regina (siciliano)
  • Artiglieri litorali
  • Treno d’Artiglieria e Regi Bagagli
  • Corpo Politico d’Artiglieria
  • Brigata Pionieri
  • Compagnia Pontonieri
  • Compagnia Artefici

ISTITUTI DI EDUCAZIONE MILITARE

  • Regia Accademia Militare

TRUPPE SEDENTANEE

  • Real Casa degli Invalidi

10 REGGIMENTI DI FANTERIA E 4 REGGIMENTI DI DRAGONI PROVINCIALI

(ordine pubblico)

Campo Tenese e il decennio francese[modifica | modifica wikitesto]

Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Esercito del Regno di Napoli (1806-1815).

Il generale Damas, comandante delle truppe napoletane dal 1799 al 1806

Nel 1805 la pace tra le potenze assolutiste e l’Impero Francese venne nuovamente meno e la regina di Napoli, Maria Carolina, in seguito alla grande vittoria napoleonica ad Austerlitz, si schierò ancora una volta in maniera decisa dalla parte della coalizione antifrancese (laTerza), coalizione a cui l’11 aprile 1805 aderì anche il reame borbonico. Napoleone decise così di mettere fine una volta per tutte alla dinastia borbonica a Napoli, inviando nell’Italia meridionale un’armata guidata dal generale Andrea Massena e da suo fratello maggiore,Giuseppe Bonaparte. L’Armee de Naples entrò nel regno borbonico il 10 febbraio 1806 ed occupò subito il nord della Campania e gli Abruzzi, incontrando una tenace resistenza solo a Gaeta ed a Civitella. Il 15 febbraio 1806 Giuseppe Bonaparte entrò a Napoli alla testa delle truppe francesi.

Gioacchino Murat Re di Napoli in uniforme da ussaro

Nel frattempo le truppe borboniche avevano approntato una linea di difesa tra la Basilicata e la Calabria, ai piedi delPollino, che si reputava quasi inaccessibile. Il comandante delle truppe napoletane, Damas, si aspettava di essere attaccato sul versante orientale del fronte, in previsione di un’avanzata francese dalle Puglie. Su questa posizione Damas intendeva sfruttare le linee di difesa parallele rappresentate dai fiumi che della Basilicata sfociavano nel Mar Ionio in direzione dellaCalabria, logorando mano a mano le truppe francesi in avanzata da oriente. Tuttavia i generali francesi erano ben consapevoli della superiorità della propria fanteria, formata da esperti veterani, e conoscevano altrettanto bene la debolezza delle truppe napoletane, formate in gran parte da ex sanfedisti privi di istruzione militare e da reclute inesperte chiamate alle armi con la leva del 1804. Così, a partire dal 4 marzo 1806, l’ala occidentale delle truppe francesi (comandata da Jean Reynier) travolse le deboli difese del Vallo di Diano e dei contrafforti occidentali del Pollino, giungendo a Campo Tenese, un altipiano ricoperto di neve ed esposto alle intemperie presso Morano. Qui la mattina del 9 marzo il generale Damas, colto di sorpresa, cercò di far trincerare le truppe napoletane nel terreno gelato usando come quartier generale un convento, in attesa dell’arrivo di rinforzi dall’ala pugliese dello schieramento borbonico (comandata da Rosenheim). Invano Damas attese Rosenheim, e resosi conto dell’impossibilità di difendere la posizione, nonostante il buon comportamento tenuto delle truppe, il generale borbonico si decise a ritirarsi verso il sud della Calabria, dove le truppe superstiti avrebbero seguito la famiglia reale in Sicilia. Le truppe di Rosenheim in Basilicata invece, avuta notizia della sconfitta di Campo Tenese, tagliate fuori dalle linee di rifornimento e stremate dalle marce e dal rigido inverno, andarono incontro ad un inesorabile sbandamento.[13]

Solo le fortezze di Civitella del Tronto (comandata dal maggiore Matteo Wade) e di Gaeta (comandata dal generale Luigi d’Assia-Philippsthal), oltre che buona parte delle Calabrie, resistettero con efficacia alle truppe francesi. Ferdinando IV, sconfitto, riparò nuovamente in Sicilia con l’intera corte napoletana. Giuseppe Bonaparte, incoronato re di Napoli, inaugurò così il fondamentale “decennio francese”.

Con la conquista francese di gran parte dell’Italia, il trono di Napoli venne affidato in un primo momento a Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, e successivamente a Gioacchino Murat, uno dei più brillanti comandanti dell’impero napoleonico. Durante il decennio francese, quindi, la monarchia borbonica detenne il solo Regno di Sicilia, mentre i napoleonici assunsero il controllo del Regno di Napoli, che fu dotato di un nuovo esercito e di una nuova legislazione di impronta napoleonica. Tale forza armata venne impiegata sui più importanti fronti europei, dalla guerra d’indipendenza spagnola alla Campagna di Russia. Il nuovo esercito napoletano fu impiegato anche nel tentativo di Murat di unificare l’Italia, ma fu respinto dalla reazione austriaca. Gli eventi successivi posero fine al breve ma intenso regno murattiano, i cui ordinamenti militari incisero notevolmente su quelli successivamente adottati del restaurato Stato borbonico.

La Restaurazione[modifica | modifica wikitesto]

Ferdinando I[modifica | modifica wikitesto]

Ferdinando I, Re delle Due Sicilie

Con la Restaurazione si ebbe la nascita del Regno delle Due Sicilie, dall’unione formale dei due regni di Napoli e Sicilia: Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia divenne quindi Ferdinando I delle Due Sicilie. Fu necessario uniformare le leggi ereditate dai due regni e riordinare quindi la struttura delle forze armate. Fu creato un “Supremo consiglio di guerra” composto da generali dei due eserciti; ma quelli dell’ex Regno di Napoli, per lo più murattiani, premevano per conservare le regole introdotte a Napoli durante il periodo napoleonico, fra cui la coscrizione, mentre quelli dell’ex Regno di Sicilia vi si opponevano. L’ordinamento finale, di impronta murattiana, stabilì infine la nascita di 52 battaglioni di fanteria, composti da 47.000 soldati, e 24 squadroni di cavalleria, composti da 4.800 cavalieri. Altri 5.000 uomini appartenevano all’artiglieria ed al genio, per un totale di circa 57.000 uomini.

La rivolta costituzionale del 1820, scoppiata a causa degli ufficiali di cavalleria Michele Morelli e Giuseppe Silvati, sancì l’incontro tra lo spirito settario e quello militare. La richiesta di una costituzione fu infatti esplicitamente appoggiata da gran parte dei vertici militari napoletani, specialmente quelli con un passato napoleonico, e fu infine accolta favorevolmente da Ferdinando I. Questo avvenimento causò la reazione della Santa Alleanza, che, tramite l’intervento di un’armata austriaca, decise di occupare militarmente Napoli per ristabilire l’assolutismo. L’esercito napoletano costituzionale, comandato da Guglielmo Pepe, fu sconfitto ad Antrodoco il 7 marzo 1821 dalle truppe austriache, costringendo infine Ferdinando I a revocare la costituzione. In seguito all’occupazione austriaca del Reame il Re congedò temporaneamente l’esercito, che si credeva largamente contaminato da infiltrazioni carbonare, e soppresse la coscrizione obbligatoria. Si pensò quindi di lasciare per qualche tempo i compiti della difesa del Reame al contingente di occupazione austriaco. La riorganizzazione delle truppe nazionali prese avvio solo nel 1823, tuttavia alle unità napoletane furono assegnati, in un primo tempo, unicamente compiti di polizia.[5]

Francesco I[modifica | modifica wikitesto]

Francesco I

Alla morte di Ferdinando I (4 gennaio 1825), suo figlio Francesco decise di rinunciare alla protezione dell’Austria, le cui truppe, giunte in soccorso della monarchia borbonica durante i moti costituzionali del 1821, ancora permanevano nel regno a spese del governo di Napoli. Le truppe austriache lasciarono la Sicilia nell’aprile 1826 e le province continentali nel gennaio-febbraio 1827[14]. Per sopperire al licenziamento delle truppe austriache, il sovrano decise di costituire quattro reggimenti di soldati svizzeri professionisti, con l’obiettivo di formare un solido nucleo di truppe del tutto estranee alle vicende politiche del Reame. Raggiunsero il Regno delle Due Sicilie circa seimila soldati svizzeri: nel 1825 furono infatti sottoscritti contratti di durata trentennale con i vari cantoni elvetici per il loro reclutamento[14].

Per quanto riguarda le truppe nazionali invece nel 1827 si ritornò all’organizzazione pre-1821 ed alla coscrizione obbligatoria. La novità più rilevante fu rappresentata dall’espulsione dall’esercito di tutti quei militari che avevano preso parte ai moti costituzionali, dei quadri murattiani e dei sospetti carbonari.[15]

Alla morte di Francesco I, avvenuta il 5 novembre 1830, la composizione del Real Esercito era la seguente[16]:

CASA REALE

  • Compagnia delle Reali Guardie del Corpo
  • Real Compagnia degli Alabardieri di Napoli
  • Real Compagnia degli Alabardieri di Sicilia

GUARDIA REALE

Tamburo e Guastatore dei Granatieri della Guardia Reale (1830)

  • 2 Reggimenti di Granatieri della Guardia Reale
  • 2 Reggimenti di Cavalleggeri della Guardia Reale
  • Reggimento Cacciatori della Guardia Reale
  • Mezza Brigata di Artiglieria a Cavallo
  • Divisione del Treno della Guardia Reale

GENDARMERIA REALE

  • 8 Battaglioni di Gendarmeria a Piedi ed 8 Squadroni di Gendarmeria a Cavallo

TRUPPE DI LINEA

FANTERIA DI LINEA NAZIONALE

  • 1º Reggimento Re
  • 2º Reggimento Regina
  • 3º Reggimento Principe
  • 4º Reggimento Principessa
  • 5º Reggimento Real Borbone
  • 6º Reggimento Real Farnese
  • 7º Reggimento Real Napoli
  • 8º Reggimento Real Palermo
  • 9º Reggimento Siciliano
  • 6 Battaglioni di Cacciatori

DIVISIONE SVIZZERA (ogni Reggimento era dotato anche di una sezione d’artiglieria)

  • 1º Reggimento “de Schindler”
  • 2º Reggimento “de Sury d’Aspermont”
  • 3º Reggimento “de Stockalper de La Tour”
  • 4º Reggimento “de Wyttembach”

CAVALLERIA DI LINEA

  • Reggimento Re
  • Reggimento Regina
  • Reggimento Lancieri Real Ferdinando

CORPI FACOLTATIVI

Guardia alla polveriera (1827)

CORPO REALE D’ARTIGLIERIA

  • 2 Reggimenti d’Artiglieria a Piedi: “Re” e “Regina”
  • Brigata Artefici Pompieri e Armieri
  • Brigata Artiglieri Veterani
  • Corpo Politico Militare di Artiglieria
  • Battaglione del Treno di Linea

CORPO REALE DEL GENIO

  • Reale Officio Topografico
  • Battaglione Zappatori e Minatori
  • Battaglione Pionieri

ISTITUTI DI EDUCAZIONE MILITARE

  • Real Collegio Militare
  • Scuola Militare

TRUPPE SEDENTANEE

  • Real Casa degli Invalidi
  • Reggimento Reali Veterani
  • Comandi Territoriali
  • Compagnie di Dotazione dei Forti

Ferdinando II[modifica | modifica wikitesto]

Ferdinando II in uniforme da Lanciere

Ferdinando II ascese al trono appena ventenne, l’8 novembre 1830. Nonostante la giovane età, il nuovo sovrano era ben consapevole dei problemi politici del regno ed era dotato di notevoli competenze militari. Ferdinando II infatti fu introdotto alla vita militare all’età di 15 anni, maturando un naturale interesse verso l’organizzazione delle forze armate. Fin dalla sua nomina a capitano generale dell’esercito, avvenuta nel 1827, compì una costante azione riformatrice: l’esercito delle Due Sicilie infatti fu oggetto di cure assidue da parte del sovrano. Appena salito sul trono provvide a reintegrare nelle loro funzioni gli ufficiali murattiani radiati da Francesco I. Questa scelta fu dettata dalla volontà di giovarsi dell’esperienza delle guerre napoleoniche in possesso di quegli ufficiali: le loro capacità tecniche erano giudicate dal re fondamentali per la creazione di un valido sostegno alla monarchia. Tra questi ufficiali spiccava la figura del principe Carlo Filangieri, che nel 1833 fu nominato Ispettore dei Corpi Facoltativi (Artiglieria, Genio, Scuole), considerati al tempo la punta di diamante delle forze armate borboniche.[15]

Negli anni trenta e quaranta furono stabiliti nuovi organici e nuovi ordinamenti. Nel periodo 1831-34 fu approvata una nuova legge sul reclutamento: questa e altre riforme, ispirate al modello francese dell’Esercito di Caserma (o permanente), stabilivano che i corpi del Real Esercito dovessero essere formati soprattutto attraverso il reclutamento o il prolungamento del servizio di leva, in modo da avere una forza armata il più possibile professionale. In meno di un decennio le riforme ferdinandee modellarono un esercito essenzialmente formato da professionisti, forte di un consistente nucleo di soldati a lunga ferma. L’apporto delle classi di leva era ridotto, andando ad incidere mediamente solo su un quarto degli organici totali (in tempo di pace), a tutto vantaggio dei livelli di inquadramento e di addestramento. Tutto ciò contribuì a fare in breve tempo del Real Esercito uno strumento adeguatamente efficiente e moderno, adatto alle esigenze nazionali e internazionali dell’epoca, completamente rinnovato moralmente e materialmente.[15]

L’alta incidenza di reparti scelti (specialmente Cacciatori e Granatieri) assicurava una certa capacità di adattamento alle realtà del terreno. La cura riservata ai corpi dell’Artiglieria, del Genio ed alle Scuole di formazione fornì alla forza armata un’elevata qualificazione culturale. La Cavalleria, forte dei numerosi allevamenti locali e delle tradizioni che ne facevano uno dei corpi migliori dell’esercito borbonico, vantava una diversificazione di specialità (dragoni, lancieri, ussari, cacciatori e carabinieri a cavallo) tale da assicurare mobilità ed adattabilità in tutti gli ambienti operativi.[15]

Ferdinando II intraprese il potenziamento dell’Esercito anche ricorrendo ad una politica economica autarchica, a tal proposito scrive il De Cesare:

« Tutto ciò che era necessario all’esercito si costruiva o si provvedeva nel Regno. Alla Mongiana si fabbricava il materiale metallurgico per l’artiglieria, a Napoli si fondevano i cannoni, a Torre Annunziata si facevano i fucili, a Pietrarsa le macchine per i legni da guerra, a Scafati le polveri, a Capua c’era un opificio pirotecnico e a Napoli un ufficio topografico, diretto dal colonnello del genio Visconti, matematico di gran valore. A Castelnuovo esisteva una sala d’armi antiche e moderne, abbastanza importante. »
([17])

L’esercito riformato da Ferdinando venne messo immediatamente alla prova sia sul fronte interno che all’estero durante il biennio 1848/49. Esso partecipò alla prima guerra di indipendenza italiana dando ottima prova di sé nelle battaglie diCurtatone e Montanara e di Goito, e mise in atto una decisiva operazione anfibia per riconquistare la Sicilia dopo i moti del ’48.

Pubblicazione militare napoletana del 1852

Nel 1848 Ferdinando II, cavalcando il clima di grandi aperture politiche del periodo, decise di dare manforte ai sabaudi e agli altri stati italiani in guerra contro l’impero austriaco. Il 29 maggio 1848, a Montanara, il 10º reggimento fanteria “Abruzzi” e il battaglione dei volontari napoletani, affiancati ai volontari toscani (comandati dal napoletano Leopoldo Pilla) per un totale di 5.400 uomini, si ritrovarono a dover fronteggiare circa 20.000 austriaci comandati dal maresciallo Radetzky. Nonostante la schiacciante inferiorità numerica, le truppe napoletane si batterono con grande slancio, attaccando più volte alla baionetta le postazioni di artiglieria austriache per tenere la posizione. Nella battaglia di Curtatone e Montanara caddero 183 tra soldati e volontari napoletani. La bravura dimostrata dalle truppe borboniche in questa occasione fu premiata dallo stesso Carlo Alberto di Savoia con il conferimento ai napoletani di numerose onorificenze sabaude. Il successivo 30 maggio a Goito i reparti del 10º Reggimento fanteria “Abruzzi” si resero nuovamente protagonisti, in quanto gli venne ordinato di tenere la posizione ad ogni costo per arginare l’avanzata austriaca. I Napoletani resistettero all’urto di Radetzky e tennero la posizione con grandi sacrifici, favorendo in maniera determinante la vittoria finale sarda. Anche in questa occasione molti ufficiali napoletani furono decorati con le massime onorificenze sabaude per mano dello stesso generale Bava, comandante piemontese del settore.

Il principe Carlo Filangieri in gran tenuta da tenente generale

In seguito alla rivoluzione indipendentista siciliana del 1848, Ferdinando decise di mandare un corpo di spedizione anfibio in Sicilia per reprimere i moti popolari. Il 6 settembre 1848, dopo un lungo bombardamento, sbarcò nei pressi di Messina il Reggimento “Real Marina” (truppe anfibie) che, in seguito a duri combattimenti, creò una testa di ponte che rese possibile lo sbarco degli altri contingenti terrestri. Le truppe del Real Esercito, comandate dal generale Carlo Filangieri, riconquistarono in poco tempo l’intera isola, riportandola sotto il dominio borbonico. Quest’operazione bellica fu all’epoca elogiata da molti osservatori esteri per l’uso efficace delle truppe da sbarco.

Tuttavia l’esperienza della partecipazione alla prima guerra di indipendenza ed alla repressione dei moti siciliani aveva innescato alcuni delicati meccanismi. Le truppe avevano in generale dato prova di fedeltà alla corona, di efficacia professionale e di reattività. Ma quando l’ordine di rientro a Napoli raggiunse il Corpo di spedizione borbonico in Italia settentrionale comandato da Guglielmo Pepe (maggio 1848), imponendogli di abbandonare le operazioni contro gli austriaci, una parte dei quadri e dei soldati si ribellò per l’umiliazione di dover rientrare (tragicamente simbolica la vicenda del colonnello Carlo Lahalle, che si suicidò dinanzi alla propria brigata). Molti celebri ufficiali napoletani (tra cui lo stesso Guglielmo Pepe, Enrico Cosenz,Cesare Rosaroll, Girolamo Calà Ulloa, Carlo Mezzacapo e Alessandro Poerio) continuarono la campagna partecipando alladifesa di Venezia. Molti furono combattuti tra il sentimento di fedeltà al sovrano e quello verso la causa nazionale. La discriminante politica, sopita nel primo ventennio di regno ferdinandeo, riemergeva ora prepotente, iniziando lentamente ad incrinare la compattezza della forza armata.[15]

Dopo il 1848 e fino alla morte di Ferdinando II il Reame visse un decennio di “immobilismo” che influì in maniera decisiva sui successivi avvenimenti. Il Real Esercito, che nel 1849 aveva permesso al sovrano di restaurare l’assolutismo senza aiuti esterni, continuò ad essere oggetto di notevoli attenzioni, ma la riaffermazione e l’inasprimento dell’assolutismo borbonico si ripercosse sull’esercito con un crescente controllo politico del sovrano sulla forza armata. Questo generò l’esodo di un’intera generazione di giovani ufficiali, i quali, in seguito alla svolta reazionaria di Ferdinando II, abbracciarono gli ideali liberali e della causa italiana. La conseguenza più grave sull’efficacia delle forze armate in quegli anni fu quindi la completa assenza di un valido ricambio generazionale che sostituisse la vecchia classe dirigente murattiana, che perciò nei critici momenti del 1860 si trovava ancora salda al comando del Real Esercito (l’età media dei generali era spesso superiore ai 70 anni). Tutto ciò produsse come conseguenza pratica una grande inefficacia nell’azione (o meglio, inazione) dei vertici militari borbonici durante le operazioni del 1860, cosa che di fatto decretò molti degli insuccessi militari che portarono infine alla conquista del Reame da parte delle armate sarde e garibaldine.[15]

Francesco II[modifica | modifica wikitesto]

Francesco II

Cacciatori (particolare di una foto di gruppo, notare la nuova tunica introdotta nel 1859 al posto della giamberga)

Vincenzo Polizzy, uno dei comandanti del Volturno

L’ultimo sovrano delle Due Sicilie, a differenza del padre, era privo di competenze militari. Nel primo periodo del suo regno si ebbe una rivolta dei Reggimenti svizzeri (7 luglio 1859), causata da avvenimenti tuttora controversi, i cui soldati rientrarono per gran parte in patria. Con i militari rimanenti furono formati dei battaglioni “esteri” in cui si arruolarono, oltre agli svizzeri, molti volontari tirolesi e bavaresi. Anche senza l’apporto di questi reggimenti disciplinati e agguerriti, l’esercito delle Due Sicilie rimaneva comunque molto numeroso e ben armato.

Alla prova dei fatti (in questo caso la spedizione dei Mille) i quadri dirigenti di questo esercito si rivelarono però incapaci di reggere l’urto di un’armata raccogliticcia, meno numerosa, male armata e apparentemente disorganizzata. A seconda dello schieramento politico, gli storici dell’epoca hanno attribuito il tracollo delle Due Sicilie al valore di Garibaldi o al tradimento di molti generali borbonici[18]. La debolezza strutturale del Real Esercito fu tuttavia evidente fin dall’inizio e deve essere attribuita a un complesso di fattori, tra i quali l’isolamento diplomatico, il critico quadro politico italiano e napoletano e, soprattutto, il rifiuto di alti ufficiali, spesso troppo anziani, a sfruttare la netta superiorità di uomini e risorse per motivi essenzialmente politici[19]. Molti quadri dirigenti nei ministeri borbonici infatti erano convinti che la guerra sarebbe stata interrotta dall’azione diplomatica delle potenze estere, contro quella che si giudicava un’invasione illegittima[15]. Tuttavia l’isolamento politico in cui Ferdinando II aveva relegato il Regno dopo il 1848 rese impossibile questo avvenimento. Un esempio lampante di questo tipo di comportamento da parte dei quadri superiori borbonici si ebbe nella battaglia di Calatafimi, la prima della spedizione dei Mille, in cui l’8º Battaglione cacciatori, superiore per addestramento e mezzi ai garibaldini, ricevette dal gen. Landi l’inaspettato ordine di ritirarsi proprio nel momento in cui i Mille sembravano rassegnati alla sconfitta[20][21]. Oppure si ricordi l’ordine del generale Lanza a Palermo di far cessare le ostilità alla colonna “Von Mechel” che, giunta nella capitale siciliana dopo un estenuante inseguimento a Garibaldi nell’interno dell’isola, era sul punto di sbaragliare tutte le difese rivoluzionarie. La battaglia di Milazzo (20 luglio 1860) ed il completo abbandono della Calabria in mano garibaldina (dove ci furono molti inquietanti episodi di tradimento da parte di ufficiali superiori[15]) fecero emergere chiaramente l’impressione che il governo napoletano fosse alla ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto.[15][22]

Non mancarono tuttavia molti episodi di reazione vigorosa (per esempio la resistenza aGaeta, a Messina e a Civitella del Tronto, nonché la battaglia del Volturno, la più grande nel corso dell’impresa dei Mille) in cui, pur nella sconfitta, tutti i quadri dell’esercito diedero «un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica»[23]. Francesco II ed i generali rimasti fedeli alla corona, capendo che il Regno era ormai diplomaticamente isolato e lasciato al suo destino dalla comunità internazionale, decisero di risparmiare alla ben fortificata città di Napoli le conseguenze di un eventuale assedio e quindi organizzarono un ultimo grande tentativo di resistenza lungo il corso del fiume Volturno e nelle piazzeforti dellapianura campana. Essi ritenevano infatti che la parte settentrionale del Reame sarebbe stata molto più facile da difendere e avrebbe rappresentato un ottimo punto per la controffensiva e la successiva riconquista del regno.

I primi combattimenti tra l’esercito borbonico ed i garibaldini sulla linea del Volturno si ebbero nei dintorni di Caiazzo. Qui il generale Colonna di Stigliano riportò una brillante vittoria sulle camicie rosse dell’ungherese Stefano Turr, facendo tra le file avversarie molti prigionieri e catturandone le bandiere.

Il 1º ottobre 1860 le truppe borboniche della piazzaforte di Capua presero l’offensiva e costrinsero Garibaldi ad abbandonare l’iniziativa. La reazione borbonica e la superiorità tattica e tecnica del Real Esercito misero così in seria crisi tutto lo schieramento garibaldino, che parve sul punto di collassare, fino all’inaspettato arrivo delle truppe dell’esercitosabaudo a dargli manforte[15]. Capua, con l’arrivo dei piemontesi, venne sottoposta ad un lungo bombardamento con i nuovi pezzi rigati a lunga gittata in dotazione all’artiglieria sarda, provocandone la resa dopo una tenace resistenza. Allo stesso tempo si combatteva sul Volturno la battaglia decisiva: la vittoria avrebbe rappresentato per i borbonici una reale possibilità di riconquistare il regno.[15]

Giovan Luca Von Mechel, costretto suo malgrado da Lanza a cessare le ostilità a Palermo, fu il comandante che diresse la difesa del Garigliano

Giosuè Ritucci, comandante delle Reali Truppe al Volturno e governatore della fortezza di Gaeta durante l’assedio

La battaglia del Volturno fu l’unica e vera battaglia campale della guerra, dura e cruenta per entrambi gli schieramenti. I borbonici, liberi finalmente di poter manovrare in campo aperto, benché molto indeboliti dagli avvenimenti precedenti, la condussero in maniera offensiva, comportandosi valorosamente e riuscendo in molti punti ad aprire pericolose falle nello schieramento garibaldino. Tuttavia lo Stato Maggiore del Real Esercito non sfruttò la situazione favorevole, ed evitò di concentrare la forza d’urto dell’offensiva in un solo punto decisivo. Al contrario si optò per una numerosa serie di attacchi diffusi su un vasto scacchiere, smorzando così l’impeto offensivo delle truppe e vanificando le vittorie riportate in molti punti dello schieramento avversario[15]. A ciò si aggiunse l’inaspettato abbandono del litorale campano da parte della flotta francese, che così facendo lasciò il fianco scoperto alle truppe borboniche (nonostante le promesse di aiuto fatte a Francesco II da Napoleone III). Approfittando delle circostanze favorevoli, la flotta sarda si posizionò ben presto lungo la costa campana, cominciando a bombardare assiduamente il fianco dello schieramento borbonico posizionato lungo il litorale[24].

In queste condizioni il Real Esercito fu costretto a ritirarsi, tentando un’ultima disperata resistenza più a nord sulla linea del Garigliano. Anche in questa occasione i cacciatori diedero un’ottima prova delle proprie capacità militari, riuscendo a bloccare con un manipolo di uomini l’avanzata di tutto lo schieramento avversario fino all’estremo sacrificio, causato dai bombardamenti dall’artiglieria navale della flotta sarda (episodio magistralmente raccontato da Carlo Alianello nella sua opera “l’Alfiere”). La resistenza sul Gariglianoconsentì al governo ed alla famiglia reale napoletana di rifugiarsi nella fortezza di Gaeta, assieme ai superstiti reparti militari borbonici (circa 13.000 soldati delle varie armi)[15].

A Gaeta assediata si consumò la fine dell’epopea della resistenza di Francesco II: 4 mesi di bombardamenti incessanti con pezzi rigati a lunga gittata, senza rifornimenti e senza viveri, con periodiche puntate offensive fuori dalle mura della cittadella. Tutto ciò tuttavia non fiaccò la resistenza degli ultimi soldati delle Due Sicilie, animati solamente dalla volontà di non arrendersi in una guerra ormai persa. Alla fine dell’assedio, avvenuta il 13 febbraio 1861, si contarono tra i difensori più di 1.500 fra morti e dispersi (oltre che 800 feriti fuori dalle mura). Tra le truppe sabaude si contarono invece 50 morti e 350 feriti. Francesco II eMaria Sofia di Baviera si rifugiarono quindi a Roma assieme ai rimanenti ministri borbonici, da dove condussero alcune fasi della resistenza armata nelle Due Sicilie dopo l’unità d’Italia.

Gli ultimi nuclei della resistenza borbonica furono le fortezze di Messina e di Civitella del Tronto. La piazzaforte di Messina, comandata dal generale Fergola e presidiata da 3 reggimenti di fanteria e da uno di artiglieria, si arrese dopo aver valorosamente resistito all’assedio il 12 marzo 1861.

Nella fortezza di Civitella del Tronto, al contrario, la difesa era affidata solo al alcuni reparti territoriali e di Gendarmeria per un totale di circa 500 uomini, coadiuvati dalla popolazione locale. Pur essendo una delle fortezze più grandi d’Europa, memore di numerosi assedi, l’importanza strategica di Civitella del Tronto era nel 1861 ormai quasi del tutto nulla, in quanto le maggiori vie di comunicazione erano situate da tempo lungo la fascia costiera abruzzese, lontano dalla cittadella, che per questo motivo era all’epoca in fase di restauro. Tuttavia qui la resistenza fu più tenace, e la bandiera borbonica di Civitella fu l’ultima ad essere ammainata. Il comandante della fortezza, il capitano di Gendarmeria Giuseppe Giovine, si ritrovò con poche centinaia di uomini e poche bocche da fuoco antiquate, senza alcuna prospettiva di vittoria, a dover fronteggiare i pezzi rigati ed i reggimenti sabaudi del generale Pinelli, il quale attuò nei confronti dei resistenti una lotta senza quartiere, reprimendo duramente e sommariamente ogni tentativo di resistenza. Le ultime truppe borboniche tuttavia tentarono più volte l’offensiva con sortite al di fuori delle mura, ma la fame, le malattie e la scarsità di armi e munizioni dovute al lungo assedio alla fine ne decretarono la resa. Civitella si arrese solo il 20 marzo 1861, dopo 6 mesi di assedio, giorno nel quale inoltre vennero fucilati per “brigantaggio” alcuni ufficiali e sottufficiali della fortezza.

In questo modo finì la storia militare delle Due Sicilie, i cui soldati, in quei tragici mesi, nel complesso si rivelarono sempre più combattivi e fedeli dei propri quadri dirigenti.[25] Francesco II il 15 febbraio 1861 si congedò dal suo Esercito rivolgendo ai suoi soldati le seguenti parole:

« …grazie a voi è salvo l’onore dell’Esercito delle Due Sicilie. Quando ritorneranno i miei cari soldati al seno delle loro famiglie, gli uomini d’onore chineranno la testa al loro passare… »
(Francesco II di Borbone, re del Regno delle Due Sicilie, 15 febbraio 1861[15])

Al momento della resa di Gaeta il Real Esercito aveva subito perdite pari a circa 23.000 uomini tra morti, dispersi e feriti.[15]

Organizzazione[modifica | modifica wikitesto]

Commissari ed Intendenza Generale

Sanità Militare

Guide ed ufficiali dello Stato Maggiore

Vista da Castel Sant’Elmo sul quartiere di Pizzofalcone (Napoli)

L’amministrazione, la giustizia ed il comando delle truppe erano integrate nel Ministero della Guerra e Marina (Ramo Guerra), che le attuava tramite quattro organi posti alle proprie dipendenze. Al di sopra del Ministero della Guerra era situato il sovrano, Capitano Generale dell’Esercito.

I compiti dell’amministrazione ed il controllo delle spese erano affidate all’Intendenza Generale dell’Esercito, istituzione creata nel 1817 e posta sotto la direzione di un Intendente Generale di nomina reale (un Maresciallo di Campo). L’Intendenza Generale era competente sul controllo delle spese militari, che nel Reame generalmente corrispondevano a più di un terzo della spesa pubblica totale. L’elevata incidenza delle spese militari sul totale degli investimenti pubblici, oltre ad indicare la grande considerazione in cui il re teneva le forze armate, testimonia l’importanza dell’indotto militare nel tessuto economico del regno (compito dell’Intendenza era anche quello di stipulare contratti con i fornitori di vestiario, cuoiame, armamenti, munizioni, vettovaglie, ecc.). Tali spese erano gestite in maniera locale dai Consigli di amministrazione, dipendenti dall’Intendenza Generale, presenti in ciascun reggimento o reparto isolato dell’esercito. Tali Consigli di amministrazione dovevano vigilare anche sulla qualità dei contratti e dare conto di ogni entrata e/o uscita ad un altro organismo del Ministero della Guerra, le Ispezioni delle Armi (o Direzione Generale).[26]

L’Ispezione delle Armi (o Direzione Generale) svolgeva compiti di supervisione amministrativa e di consulenza tecnica nell’attività addestrativa dei corpi. Nel caso dei Corpi Facoltativi (Artiglieria, Genio e Scuole), le competenze della Direzione Generale si estendevano anche alla gestione dei materiali ed alla direzione degli opifici militari. Particolare menzione merita la Direzione Generale degli Ospedali da cui dipendeva tutto il servizio sanitario dell’Esercito ed il Corpo Sanitario. L’ospedale militare più importante (detto Ospedale Centrale) era quello della Santissima Trinità dei Pellegrini, situato a Napoli (500 ricoveri). Gli Ospedali di I classe (300 ricoveri) erano situati a Napoli, Palermo, Capua, Nocera e Pescara. Gli ospedali di II classe (200 ricoveri) erano situati a Caserta, Gaeta, Nola e Messina. Gli ospedali di III classe (100 ricoveri) erano situati a Cava, Trapani e Siracusa. Gli “ospedaletti” (50 ricoveri) erano situati a Chieti, Ischia, Tremiti, Ponza e Milazzo.[26]

Il terzo organo del Ministero della Guerra era il Comando Generale delle Armi, che comprendeva il Corpo dello Stato Maggiore dell’Esercito. Da questo organo dipendevano il servizio e i movimenti delle truppe. Lo Stato Maggiore dell’Esercito in tempo di pace si suddivideva in Comando Generale di Napoli (province al di qua del Faro) e Comando Generale di Palermo (province al di là del Faro). Il Comando Generale di Napoli si trovava spesso in contatto diretto con il sovrano, che scavalcava così le funzioni del Ministero della Guerra, il quale era così costretto a sancire gli ordini del re “ex post”. Gli ordini del Comando Generale erano diramati ai Comandanti Militari delle varie province continentali e siciliane, i quali, a loro volta, li trasmettevano ai corpi di guarnigione attraverso i Comandi delle Piazze d’armi. Le Piazze d’armi (castelli o forti) erano suddivise in varie classi a seconda dell’importanza e delle infrastrutture installate.[26]

Il quarto organo del Ministero della Guerra si occupava dell’amministrazione della giustizia militare e prendeva il nome diAlta Corte Militare. Essa era presieduta da un tenente generale e composta da 6 giudici ordinari e da 4 giudici straordinari. La sua funzione era quella di tribunale di revisione dei giudizi emessi dagli organi di giustizia periferici, ossia:

  • Consigli di Guerra di Corpo: operanti a livello di reggimento o battaglione, competenti per i reati commessi da soldati, sottufficiali ed ufficiali subalterni dello stesso corpo senza complicità di civili.
  • Consigli di Guerra di Guarnigione: operanti per ogni Comando di Piazza (o provincia) e competenti anche per i reati commessi da militari di corpi diversi.
  • Consigli di Guerra di Divisione: nominati per ordine espresso del Ministro della Guerra, competenti per i reati commessi da ufficiali superiori e generali.

Una parte dei Consigli di Guerra doveva essere di pari grado rispetto all’imputato, e l’altra superiore. Perciò nei tribunali spesso soldati ed ufficiali sedevano nello stesso Consiglio. L’Alta Corte poteva quindi confermare o annullare i giudizi degli organi periferici sia per motivi di merito che di procedura. Nel caso di reati di particolare gravità però veniva nominato un Consiglio di Guerra subitaneo che aveva luogo nelle 24 ore seguenti all’evento del reato, per direttissima, ed il cui giudizio non era appellabile. Le pene per i reati militari erano: la morte, l’ergastolo, i lavori forzati, la reclusione, la degradazione ed infine punizioni corporali (passaggio del militare a passo lento in un corridoio di commilitoni dotati di bacchette, e trasferimento ai battaglioni di disciplina).[26]

Coscrizione e reclutamento[modifica | modifica wikitesto]

Il primo esempio di servizio di leva nel Regno di Napoli si fa risalire al 1563, quando il viceré spagnolo Perafán de Riberaistituì una “Milizia provinciale” il cui compito era quello di fornire le truppe di complemento alle armate imperiali in caso di guerra. La consistenza della milizia provinciale variò nel tempo a seconda delle esigenze: nel primo periodo si richiesero 5 uomini ogni 100 “fuochi” (nuclei familiari), in modo da formare 74 compagnie di 300 uomini ciascuna. Alla fine del ‘600 il numero delle compagnie della Milizia era di 112, riunite in 9 “sergenzie maggiori”. La Milizia provinciale fu temporaneamente soppressa dal viceré austriaco Virico Daun dal 1708 al 1711 e negli anni immediatamente successivi alla salita al trono di Carlo di Borbone (1734). Tuttavia il nuovo sovrano provvide a riattivare la Milizia nel 1743 con l’obiettivo di formare i 6 nuovi reggimenti di linea “nazionali”, che in seguito si distinsero a Velletri. A partire dal 1782 la Milizia Reale (anche detta Real Battaglione) fu trasformata dal ministro Giovanni Acton in una riserva di mobilitazione per l’Esercito di 15.000 uomini, reclutati per sorteggio tra i contadini, i quali andavano a contrarre una ferma decennale con un semplice obbligo di istruzione domenicale (più 8 riviste ed un’adunata annuali). Questa riserva era suddivisa in 120 compagnie di 125 uomini ciascuna, distribuite fra i vari colonnellati del regno. La Milizia Reale cessò le sue funzioni nel 1800, quando venne sostituita da una milizia volontaria basata sulle “masse” dell’esercito sanfedista.[27]

Un reale dispaccio del 5 agosto 1794 ordinava per la prima volta una leva di 16.000 reclute per l’Esercito, oltre ai riservisti della Milizia Reale, da scegliere fra i maschi di età compresa fra i 18 ed i 45 anni, non ammogliati e di statura non inferiore a cinque piedi e due pollici (circa 165 cm[28]), in ragione di 4 uomini su 1.000, volontariamente o per sorteggio (“per via del bussolo da praticarsi in pubblico parlamento”). Con l’aggravarsi del quadro politico internazionale, in seguito al R. Editto del 24 luglio 1798, venne ufficialmente sancito nel reame borbonico il principio dell’obbligo generale e personale di difesa armata della patria, dichiarando soldati dalla nascita tutti gli individui. Gli uomini dai 17 ai 45 anni erano “reputati per effettivi soldati ascritti ai diversi corpi” e tenuti “all’indispensabile dovere di presentarsi ai detti corpi per prestarvi il servizio militare” in caso di mobilitazione generale. La mobilitazione del 1798 ampliava così la base del sorteggio, richiedendo 10 uomini ogni 1.000 persone (in modo da mobilitare in totale circa 40.000 reclute in tutto il regno). La chiamata alle armi riuscì in buona parte a raggiungere gli obiettivi numerici, nonostante alcuni disordini verificatisi nelle Calabrie ed in Terra di Lavoro, ma non si riuscì a dotare tutte le reclute di un adeguato addestramento ed equipaggiamento prima dell’occupazione francese. Dopo la prima restaurazione, nel 1805, nel regno borbonico si decise di istituire nuovamente la leva per reclutare 30.000 uomini con un tasso legale del 7,5 per mille tra tutti i sudditi aventi un’età compresa tra i 20 ed i 40 anni. In previsione di un nuovo scontro con la Francia napoleonica, ogni reggimento attinse dai depositi il numero di reclute necessario per completare nel più breve tempo possibile gli organici di guerra.[29]

I “Cacciatori” erano reclutati principalmente nelle zone montuose del Reame (1860)

Tenente dei Carabinieri a Cavallo

Ufficiale dell’Artiglieria a Cavallo (1861)

Durante il regno di Gioacchino Murat il numero dei coscritti fu notevolmente aumentato e nel 1810 fu eliminato ogni altro metodo di reclutamento usato in precedenza. Nel 1816, con la Restaurazione, la coscrizione obbligatoria fu nuovamente ridotta: si richiedevano 3 coscritti ogni 2.000 abitanti con un’età compresa tra i 21 e i 25 anni, la ferma durava 6 anni per la fanteria e 9 per i soldati dell’artiglieria e della cavalleria.[30]

In seguito ai fatti del 1820 ed alla conseguente riorganizzazione del Real Esercito si rese necessario aumentare gradualmente l’incidenza della coscrizione obbligatoria: la legge del 28 febbraio 1823 stabilì che la leva riguardasse tutti i maschi idonei fra i 18 ed i 25 anni, i quali, dopo un pubblico sorteggio effettuato dal Decurionato (consiglio comunale) di ogni Comune del Reame, ingaggiavano una ferma di 6 anni. Ogni Comune doveva fornire un determinato numero di coscritti in proporzione alla propria popolazione (una recluta ogni 1.000 abitanti). Il Decurionato di ogni Comune del Regno provvedeva a stilare la lista degli uomini tra i 18 ed i 25 anni, lista che veniva affissa per 8 giorni alle porte del municipio (nella città di Napoli questa operazione si effettuava per ogni quartiere). In questo arco di tempo coloro che erano stati segnati sulla lista avevano la possibilità di rettificare eventuali errori presenti. Allo scadere degli 8 giorni la responsabilità delle operazioni di coscrizione passava all’Intendente della Provincia, ed il Decurionato, con l’ausilio di uno o più medici, doveva provvedere alla pubblica selezione dei coscritti sorteggiati tramite un bussolotto, rimpiazzando gli eventuali inidonei con altri coscritti idonei in base al numero di estrazione. I requisiti per essere ritenuti idonei erano un’altezza minima di circa 162 cm, il celibato ed il non avere mali o imperfezioni fisiche. Motivi di esclusione erano particolari condizioni familiari (figli unici o sostegni di famiglia), religiose o accademiche. Composto così il contingente di ogni comune, le reclute venivano dotate del denaro occorrente ad effettuare il viaggio per giungere ai rispettivi depositi, dove venivano controvisitate e assegnate ai vari corpi dell’Esercito in base alla loro statura ed ai loro mestieri (selezioni più rigide avvenivano per i Corpi Facoltativi e la Gendarmeria). Chi lo avesse desiderato avrebbe potuto farsi sostituire a pagamento da un altro coscritto, tuttavia se il rimpiazzo non fosse giunto al deposito nel tempo previsto o se si fosse reso responsabile di reati o di diserzione nell’anno successivo alla sua entrata in servizio, il rimpiazzato sarebbe stato obbligato a ritornare sotto le armi[31].

Salito al trono Ferdinando II, nel marzo 1834 si modificò parzialmente l’ordinamento della coscrizione obbligatoria nel Reame. Venne così deciso che i corpi del Real Esercito si reclutassero mediante leva, arruolamento volontario o prolungamento della ferma, adottando un metodo molto simile a quello francese. Le nuove disposizioni in materia di leva obbligatoria ordinavano che ogni suddito di età compresa tra i 18 ed i 25 anni fosse soggetto all’obbligo di servizio militare mediante estrazione a sorteggio (nei primi anni 1 prescelto ogni 1.000). Le operazioni della leva erano coordinate dai Consigli di Leva operanti in ogni provincia del regno, sotto la direzione dell’Intendente della Provincia. Le reclute selezionate dai Consigli venivano assegnate ai corpi dalla Commissione di Leva di Napoli in base a poche caratteristiche peculiari: i coscritti provenienti da zone montane venivano spesso inviati ai Battaglioni Cacciatori, i coscritti più alti erano immatricolati nei Granatieri e nei Carabinieri ed i più abili nella lavorazione del legno e dei metalli nei Corpi Facoltativi[15]. La durata del servizio era di 10 anni, di cui 5 di servizio attivo “sotto le bandiere” e 5 di congedo nella riserva (richiamo in caso di mobilitazione). I coscrittidestinati ad Artiglieria, Genio, Cavalleria e Gendarmeria invece svolgevano 8 anni di servizio attivo, senza assegnazione alla riserva. Erano esclusi dalla leva di terra i distretti marittimi e le isole, destinati a fornire il contingente per l’Armata di Mare e l’Artiglieria Litorale. Per antico privilegio i sudditi siciliani contribuivano in maniera molto limitata alla formazione dei contingenti di leva rispetto alle province continentali, e addirittura negli ultimi anni di vita del Reame i siciliani furono del tutto esentati dall’obbligo della coscrizione. Tuttavia nel 1859 servivano nel Real Esercito circa 12.000 siciliani in qualità di volontari. Erano esentati dal servizio di leva gli uomini più bassi di 1,62 m, quelli aventi imperfezioni fisiche o particolari condizioni di famiglia (figli unici, sostegni di famiglia, ecc.), gli appartenenti a determinati ordini religiosi e gli studenti che frequentavano corsi di studio superiori. Come in Francia, era inoltre possibile per il coscritto farsi sostituire nell’obbligo di leva versando al tesoro 240 ducati ed indicando un “surrogante”. Il surrogante doveva essere un militare in servizio da almeno 4 anni (7 per alcuni corpi) al quale venivano versati i 240 ducati pagati dal sostituito. Il surrogante perciò si rendeva disponibile a prolungare la propria ferma per un periodo predeterminato di tempo.[15]

Tuttavia la richiesta di coscritti era alquanto ridotta dato che nel Real Esercito era predominante la componente volontaria. Carlo Mezzacapo, nel suo studio del 1858, stimava che in tempo di pace il contingente di leva chiamato annualmente alle armi non fosse superiore a 12.000 unità, su un gettito teorico di circa 25.000 coscritti abili al servizio nell’esercito. Il resto dei militari era quindi formato da volontari o rinnovi di ferma. Il servizio volontario era contratto per 8 anni, senza assegnazione successiva alla riserva. I volontari erano per gran parte figli di altri militari (tra cui molti “figli di truppa”, arruolati a 16 anni) o piccoli borghesi attirati dalle prospettive di carriera.[15] Gli ufficiali della fanteria e della cavalleria erano generalmente reclutati direttamente tra i sottufficiali mediante esami di idoneità. Circa un terzo degli ufficiali di fanteria e cavalleria proveniva invece dal Real Collegio Militare o dalla Guardia del Corpo. Gli ufficiali di Artiglieria e Genio invece provenivano quasi tutti dai corsi del Real Collegio Militare.[15]

Il sistema di reclutamento introdotto nel 1834 era molto simile al modello francese dell’esercito di qualità, e tuttavia, benché fornisse un valido nucleo di professionisti, aveva una grande debolezza: l’insufficienza delle riserve in tempo di guerra. Per portare gli organici dal piede di pace a quello di guerra le autorità ricorrevano o al richiamo della riserva (cioè delle ultime 5 classi di leva) o alla chiamata dell’intera classe di leva dell’anno. Tuttavia la grande incidenza di soldati professionisti finiva col penalizzare la formazione di adeguate riserve a cui ricorrere in caso di mobilitazione. Il gettito del contingente di riservisti richiamato in tempo di guerra era quindi poco consistente, costringendo i vertici militari a dover chiamare alle armi un’intera nuova classe di leva. Questo aveva come conseguenza un improvviso ingrossamento degli organici da parte di reclute inesperte, bisognose di un lungo addestramento (specie per le armi tecniche).

I fatti del 1848/49 evidenziarono questo difetto, ed il governo napoletano decise di ampliare ulteriormente il gettito della leva obbligatoria. Negli anni cinquanta la consistenza dei reparti borbonici raggiunse così le 100.000 unità, in quanto furono chiamati alle armi annualmente circa 30.000 coscritti in più rispetto al passato. In questo modo si poteva più facilmente completare gli organici in tempo di guerra, portando teoricamente l’esercito a più di 120.000 uomini.[15]

Con le riforme avviate da Ferdinando II nel 1859 il servizio durava cinque anni, ai quali ne seguivano altri cinque nella riserva, tuttavia esisteva anche la possibilità di effettuare otto anni continuati, senza transitare nella suddetta riserva. Icoscritti, il cui numero veniva stabilito anno per anno dallo stesso sovrano, venivano sorteggiati nei comuni del regno fra i giovani che avessero un’età compresa fra i 18 ed i 25 anni, e poi inviati nel capoluogo della provincia di appartenenza per la visita di idoneità e successivamente inviati ai reparti per un addestramento di 6 mesi. Accanto alla leva esisteva anche la possibilità di prestare servizio volontario di 8 anni per i cittadini dello Stato, di 4 per gli stranieri.[32]

Gradi e avanzamento[modifica | modifica wikitesto]

Ordini militari cavallereschi delle Due Sicilie

Una rara foto del colonnello Girolamo De Liguoro, comandante del 9º Reggimento Fanteria di Linea “Puglia” nella battaglia del Volturno

Le procedure di avanzamento di grado si fondavano principalmente su esami di idoneità periodici, ed in alcuni casi su criteri di anzianità. L’esame di idoneità per avanzare di grado seguiva una procedura simile per quasi tutti i livelli gerarchici fino a quello di ufficiale: per esempio un soldato di truppa poteva accedere al grado di caporale tramite l’ammissione ad un esame indetto dal colonnello comandante del Reggimento. I candidati dovevano quindi consegnare la domanda ai comandi di Compagnia, che la corredavano delle loro osservazioni. Successivamente veniva pubblicata la lista degli ammessi agli esami (generalmente 3 candidati per ogni posto disponibile) e si nominava la commissione giudicatrice. L’esame quindi aveva luogo tramite prove scritte e tecnico-pratiche secondo un programma autorizzato dalla Direzione Generale. Il verbale delle prove d’esame, con osservazioni e punteggi, era quindi consegnato al colonnello comandante che rendeva noti i risultati pubblicando la graduatoria. Le promozioni avevano luogo tramite questa graduatoria. La stessa procedura era usata per le promozioni dal grado di caporale a quello di caporal foriere, secondo sergente e primo sergente. Per la promozione ad aiutante di campo (il grado maggiore per un sottufficiale) e per la promozione ad alfiere (il grado minore dell’ufficialità) la commissione esaminatrice era ampliata con ufficiali superiori a cui spesso si univano dei generali.[15]

Il primo grado dell’ufficialità (alfiere) era reclutato per due terzi degli effettivi ricorrendo al metodo degli esami di idoneità tra gli aiutanti di campo dello stesso corpo, e per un terzo con provenienti dal Real Collegio Militare (Nunziatella) e dallo Squadrone delle Guardie del Corpo. In fanteria e cavalleria le promozioni dal grado di alfiere a quello di capitano (passando per i gradi di secondo tenente e primo tenente) avvenivano semplicemente per anzianità, mentre nell’artiglieria e nel genio si ricorreva ad esami di idoneità effettuati ogni due anni. L’ultimo esame di idoneità era previsto per passare dal grado di capitano a quello di maggiore (il primo grado per gli ufficiali superiori), i successivi passaggi ai gradi di tenente colonnello e colonnello avvenivano per anzianità. La promozione dei colonnelli ad ufficiali generali (brigadiere, poi maresciallo di campo e tenente generale) poteva avvenire per anzianità, ma di fatto il re esercitava un potere di scelta sulle promozioni ad ufficiale generale. Nel caso degli ufficiali il non riconoscimento dell’idoneità determinava di norma l’esclusione dal servizio attivo o il prepensionamento.[15]

Il criterio dell’anzianità aveva come vantaggio l’assenza di favoritismi, tuttavia uno svantaggio evidente era rappresentato dall’età media assai avanzata degli ufficiali superiori (soprattutto nello Stato Maggiore). Infatti coloro che si distinguevano per le doti militari generalmente non erano premiati con l’avanzamento di grado ma spesso solo con decorazioni e compensi economici, generando in molti casi dei risentimenti.[15]

Istituti d’istruzione militare[modifica | modifica wikitesto]

L’ordinamento delle scuole militari al servizio del Real Esercito comprendeva il Real Collegio Militare, la Scuola d’Applicazione d’Artiglieria e Genio, lo Squadrone delle Guardie del Corpo a Cavallo, il Battaglione degli Allievi Militari ed altri istituti e scuole minori.

Il Real Collegio Militare (“Nunziatella“) derivava dall’istituto fondato nel 1786 da Ferdinando IV. Da esso uscivano ufficiali destinati principalmente ad Artiglieria e Genio, o, in casi più rari, a tutte le altre armi. Il Real Collegio nel corso degli anni infatti si era specializzato nella formazione di ufficiali per le armi tecniche, soprattutto in seguito alla riforma del 1816 che aveva ristrutturato la preesistente Scuola Militare Politecnica creata da Murat nel 1811. Sede tradizionale del Real Collegio era il Monastero dell’Annunziatella a Napoli, nel quartiere Pizzofalcone. Nel 1855 Ferdinando II lo trasferì a Maddaloni, credendo così di isolare l’istituto dai fermenti politici della capitale, ma alla morte del sovrano nel 1859 il Real Collegio fece ritorno alla sua antica sede napoletana.

Real Collegio Militare

Gli allievi, a cui si richiedeva l’appartenenza alla nobiltà o la parentela con ufficiali superiori, erano ammessi all’età di 10-12 anni e dovevano corrispondere una retta di 180 ducati mensili (più 100 ducati il primo anno per il “corredo”). Generalmente il numero degli allievi corrispondeva a 170 effettivi, suddivisi in quattro compagnie inquadrate da ufficiali o da altri allievi più anziani. L’ordine era garantito da sottufficali dei Veterani. Sulla base dell’ordinamento del 1823 (conservato fino al 1861), i corsi erano organizzati su otto anni, al termine dei quali gli allievi sostenevano un esame di idoneità. La documentazione giunta fino a noi testimonia l’elevata complessità e l’alto livello scientifico raggiunto specialmente dai corsi di Artiglieria (soprattutto grazie all’opera del capitano Nunzio Ferrante, che in quegli anni reggeva la cattedra di “artiglieria teorica”).[33]

Sulla base della valutazione ricevuta all’esame veniva quindi stilata una graduatoria: i primi classificati erano destinati adArtiglieria e Genio secondo le esigenze di organico, gli altri erano inseriti nei reparti di Fanteria e Cavalleria. Coloro che non superavano l’esame invece potevano essere immatricolati nei corpi come sottufficiali o, in alternativa, direttamente congedati. Sul finire del 1859 fu proposto al Consiglio di Istruzione la possibilità di adottare un nuovo regolamento, da applicare a partire dal 1861. Tuttavia, a causa del precipitare degli eventi, furono adottati solamente regolamenti d’urgenza, volti a inserire gli allievi nei reparti nel minor tempo possibile. In quest’ottica alcuni allievi parteciparono agli esperimenti sull’impiego di obici rigati attuato al Poligono di Bagnoli nel giugno 1860. Molti allievi vollero seguire le sorti del Real Esercito sino alla caduta del Regno, molti raggiunsero Gaeta e si batterono con valore durante l’assedio.[33]

Guardia del Corpo a Cavallo in gran tenuta

Il 31 ottobre 1857, dopo vari progetti proposti dal generale Filagieri e dal brigadiere Scala (rispettivamente Direttore e Ispettore dei Corpi Facoltativi), fu istituita a Capua (nel padiglione di San Giovanni) la Scuola di Applicazione di Artiglieria e Genio, destinata alla formazione complementare degli alfieri delle due armi provenienti dal Real Collegio Militare. La durata del corso applicativo era di un anno, alla fine del quale gli allievi sostenevano un esame di idoneità sulle materie trattate. I risultati degli esami erano quindi spediti alla Direzione dei Corpi Facoltativi. Era inoltre possibile ottenere il grado di primo tenente sostenendo un ulteriore esame sulla base di programmi stabiliti anno per anno dall’Ispettorato delle due armi. Oltre alla specializzazione d’arma gli allievi si esercitavano alla scuola di equitazione ed al comando delle batterie a cavallo.[33]

Altro istituto di formazione era rappresentato dallo Squadrone delle Guardie del Corpo a cavallo in quanto, oltre al “Servizio delle Reali Persone”, il reparto si occupava anche dell’istruzione degli alfieri della Cavalleria o della Guardia Reale. L’accesso allo Squadrone era molto esclusivo, si richiedeva al candidato “pruova di Nobiltà generosa” ed una cospicua rendita. Dopo 6 anni di servizio era possibile svolgere l’esame di idoneità al grado di alfiere (che si svolgeva ogni anno). L’origine dell’unità risaliva al Settecento, ma nel 1815 venne definitivamente riordinata nella forma esistita fino al 1861. Il comandante era un tenente generale prescelto per antica consuetudine tra i primogeniti di una delle famiglie nobili più illustri del regno.[34]

Fino al 1848 inoltre era esistita a Napoli una Scuola Militare per la formazione di sottufficiali dei diversi corpi. L’età di ammissione era la stessa del Real Collegio Militare, con 160 posti disponibili per figli di ufficiali o borghesi. Previo concorso, i migliori allievi potevano passare al Real Collegio, gli altri al termine dei corsi erano invece nominati caporali o sergenti. Tuttavia, a seguito degli avvenimenti del 1848, la Scuola Militare venne sciolta. Le sue funzioni vennero assegnate ad un nuovo istituto: il Battaglione degli Allievi Militari. A differenza del precedente istituto, gli allievi del Battaglione potevano iscriversi tra gli 8 ed i 12 anni in un numero che poteva arrivare fino a 150 effettivi. Gli allievi, divisi in cinque classi, seguivano corsi di letteratura, matematica ed esercizi militari, sostenendo alla fine di ogni anno un esame per il passaggio alla classe superiore. L’uscita dal Battaglione avveniva tra i 17 ed i 18 anni, a seguito di esame di idoneità, sulla base del quale avveniva l’assegnazione ai vari corpi. Gli allievi del Battaglione Militare non uscivano che semplici soldati dai corsi, la promozione avveniva solo dopo aver dimostrato le proprie capacità pratiche e teoriche nel corpo a cui nel frattempo erano stati assegnati.[35]

Altri istituti di formazione del Real Esercito erano la Scuola di Equitazione, fondata nel 1844, che formava gli ufficiali ed i sottufficiali istruttori dei reparti montati. Con analoghi compiti di formazione operavano le numerose Scuole di Tiro eScuole di Ginnastica, oltre che le 4 Scuole di Scherma istituite a partire dal 1848 in Napoli, Capua e Caserta. In tutti i reggimenti o battaglioni isolati operavano inoltre Scuole Reggimentali, che provvedevano alla formazione culturale e tecnica della truppa. Negli Alberghi dei Poveri di Napoli ed Aversa inoltre venivano impartiti corsi di istruzione premilitare a giovani indigenti (nonché un avviamento professionale consistente nell’insegnamento di elementi di musica, falegnameria, lavorazione di metalli, pellami, tessuti, ecc.), che ne consentivano il successivo reclutamento da parte dell’esercito.[35]

Organici[modifica | modifica wikitesto]

Veterani e Invalidi

La base dell’organizzazione e degli ordinamenti del Real Esercito era rappresentata dal Real Decreto n. 1.566 del 21 giugno 1833, che stabiliva il numero e la composizione dei corpi. Dal 1824 i corpi di truppa erano suddivisi in “truppe attive” (Guardia Reale, Fanteria, Cavalleria, Artiglieria, Genio, Guardie del Corpo e Gendarmeria) e “truppe sedentarie” (di guarnigione nelle Piazze: Veterani e Invalidi).[36]

Negli anni successivi al 1833 furono apportate alcune modifiche agli organici ed aggiunti nuovi corpi: nel 1840 fu creato il 13º Reggimento di Fanteria di linea, e nell’agosto del 1859 il 14º ed il 15º. Nel 1859 furono creati inoltre il 14º, 15º e 16º Battaglione Cacciatori. Nel 1856 fu istituito il Battaglione Tiragliatori della Guardia Reale. Nel 1848 fu creato il Reggimento Cacciatori a Cavallo (con funzioni di cavalleria leggera) e temporaneamente disciolto il corpo della Gendarmeria (corpo che, oltre a svolgere i compiti militari coordinati dal Ministero della Guerra, si occupava anche dell’ordine pubblico sotto la direzione del Ministero dell’Interno[37]), sostituito con due reggimenti di Carabinieri, uno a Piedi e l’altro a Cavallo (1850). La 1ª compagnia scelta del Reggimento Carabinieri a Piedi aveva inoltre la funzione di “Guide” dello Stato Maggiore.[36]

Come si è detto, in seguito agli avvenimenti del 1848, l’organico dell’esercito fu gradualmente incrementato fino a raggiungere un livello di effettivi intermedio tra quello “di pace” e quello “di guerra”. Secondo l’ordinamento del 1856 infatti, in caso di guerra, l’esercito avrebbe potuto mobilitare ben 60.000 uomini in più rispetto all’organico di pace, ed in particolare avrebbe potuto mobilizzare 48.000 fanti, 6.600 cavalieri, 4.400 artiglieri e 1.000 genieri da aggiungere ai circa 70.000 effettivi del Real Esercito in tempo di pace.[36]

Nel 1860 la Fanteria poteva contare su 15 reggimenti di Fanteria di Linea organizzati in sette brigate, 16 battaglioni di Cacciatori e 4 reggimenti della Guardia Reale (2 reggimenti di Granatieri, 1 di Cacciatori, 1 di Fanteria di Marina “Real Marina” ed in più il Battaglione Tiragliatori). Un tipico reggimento di fanteria era composto da 2 battaglioni (3 in tempo di guerra) di 6 compagnie ciascuno (7 in tempo di guerra), per un totale di 2.170 uomini (3.279 in tempo di guerra). Un battaglione era formato da 1 compagnia Granatieri, 1 compagnia Cacciatori e 4 compagnie Fucilieri (più 1 compagnia deposito in tempo di guerra). Una compagnia era formata da 164 uomini, nell’ordine[36]:

Guastatore, 1860

Alfiere degli Ussari (1858)

  • 1 capitano
  • 1 primo tenente
  • 1 secondo tenente
  • 1 alfiere
  • 1 primo sergente
  • 4 secondi sergenti
  • 1 caporal foriere
  • 8 caporali
  • 1 guastatore
  • 3 tamburi
  • 1 trombetto
  • 141 soldati

Al vertice del reggimento c’era uno Stato Maggiore di 10 uomini (13 in tempo di guerra) composto da:

  • 1 colonnello
  • 1 tenente colonnello
  • 2 maggiori (3)
  • 2 chirurgi (3)
  • 2 cappellani (3)
  • 1 ufficiale quartiermastro
  • 1 ufficiale d’abbigliamento

Era presente inoltre uno Stato Minore di 28 uomini (32 in tempo di guerra) formato da:

  • 2 aiutanti di battaglione (3)
  • 1 portabandiere
  • 2 furieri maggiori (3)
  • 1 sergente prevosto
  • 1 sergente dei guastatori
  • 2 caporali dei guastatori (3)
  • 1 tamburo maggiore
  • 2 caporal-tamburi
  • 1 capo banda
  • 12 musicanti
  • 1 capo sarto
  • 1 capo calzolaio
  • 1 capo armiere

La forza della Cavalleria corrispondeva a 9 reggimenti (1 di Carabinieri a Cavallo, 3 di Dragoni, 2 di Lancieri, 2 di Ussari della Guardia reale ed 1 di Cacciatori a Cavallo). L’organico di un reggimento di cavalleria corrispondeva a 4 squadroni (più 1 squadrone deposito in tempo di guerra) formati da 153 uomini e 139 cavalli ciascuno (rispettivamente 191 e 167 in tempo di guerra). Lo Stato Maggiore e lo Stato Minore erano dotati, oltre ai soliti ruoli della fanteria, anche di sellai, maniscalchi, veterinari e cavallerizzi per un totale di 28 uomini e 40 cavalli.[36]

Treno d’Artiglieria (1854)

L’arma d’Artiglieria era coordinata da uno Stato Maggiore formato da 17 colonnelli e tenenti colonnelli, 73 contabili e 115 guardie di batteria. Essa era costituita da 2 reggimenti (“Re” e “Regina”), 15 Batterie a Cavallo (di cui una Batteria Estera montata), 1 Battaglione di Artefici ed 1 Battaglione del Treno. Un reggimento d’Artiglieria poteva fare affidamento su 2.240 artiglieri (3.202 in tempo di guerra) ed era costruito su 4 brigate, a loro volta suddivise in otto compagnie d’artiglieria da campo (di cui 3 montate, anche dette “batterie”, e 5 a piedi, di cui 2 da montagna. In seguito anche le batterie a piedi furono montate), 8 compagnie d’artiglieria da piazza e 2 compagnie di veterani ciascuna. Una compagnia a piedi e da piazza contava 119 artiglieri, una batteria montata contava 178 artiglieri e 108 cavalli (rispettivamente 274 e 276 in tempo di guerra). Lo Stato Maggiore e lo Stato Minore di un reggimento facevano affidamento su 44 uomini e 34 cavalli. Il Battaglione Artefici era costituito da uno Stato Maggiore e Minore di 11 uomini e da 6 compagnie di armieri, artefici, pontonieri, operai meccanici ed artificieri per 1.157 soldati.[36]

L’arma del Genio era coordinata da uno Stato Maggiore di 111 ufficiali e guardie dotati di 28 cavalli. Essa era suddivisa in battaglioni minatori-zappatori e pionieri, inoltre poteva fare affidamento sui servizi dell’Officio Topografico. I battaglioni minatori-zappatori avevano uno Stato Maggiore e Minore di 12 uomini e 7 compagnie di 122 uomini ciascuna (154 in tempo di guerra). I battaglioni pionieri erano dotati di 8 compagnie. L’Officio Topografico era suddiviso in quattro sezioni (I Biblioteca, II Tipografia, III Topografia di Palermo e IV Geodesia e topografia sul terreno), ogni sezione era affidata ad ufficiali del genio ed a professori di geodesia, astronomia, astronomi, ingegneri, disegnatori, litografi, incisori e tipografi, per un totale di 69 uomini ciascuna.[36]

Reparti Svizzeri ed Esteri[modifica | modifica wikitesto]

Il Real Esercito disponeva di reparti esteri fin dalla sua origine, in particolare albanesi e svizzeri. Nel 1737 venne costituito un reggimento albanese, denominato “Macedonia”, grazie all’intercessione del primate epirota residente a Napoli, che reclutava i suoi connazionali in concorrenza con i reggimenti veneziani oltremarini a Corfù ed in Epiro. Successivamente si cercò di estendere il reclutamento anche alle comunità albanesi autoctone dell’Italia meridionale, tuttavia alla fine del ‘700 il Reggimento “Albania” era diventato un vero e proprio reggimento straniero in cui confluivano soldati delle più disparate nazionalità. Caratteristica dell’equipaggiamento dei reparti albanesi era il “cangiarro”, una corta sciabola di derivazione ottomana (kandjar). Reggimenti svizzeri erano invece presenti già nel 1734 alla conquista borbonica del reame tra le truppe di re Carlo, ceduti dalla Spagna al giovane sovrano. I corpi svizzeri napoletani furono temporaneamente sciolti nel 1790, ma già nel 1799 si provvide a creare un nuovo reggimento estero denominato “Alemagna”, destinato ad inquadrare i militari svizzeri oriundi e quelli appena giunti da oltralpe (oltre che tedeschi, italiani ed altri stranieri). Questi due reggimenti esteri furono sciolti in seguito alla conquista napoleonica del reame.[38]

Composizione di un Reggimento Svizzero (1828)

Individui dei Reggimenti Svizzeri nel 1825

Il Real Esercito reclutò quattro nuovi reggimenti svizzeri tra il 1825 ed il 1830, in seguito alla ricostituzione di un esercito nazionale ed alle capitolazioni contratte tra il governo borbonico, rappresentato dal principe Paolo Ruffo di Castelcicala, ed i cantoni della Confederazione Elvetica. In particolare il 1º Reggimento era reclutato nei Cantoni Lucerna, Nidvaldo,Obvaldo, Uri, Appenzello Interno ed Appenzello Esterno; il 2º Reggimento era dei CantoniFriburgo e Soletta; il 3º Reggimento era dei Cantoni Vallese, Svitto e Grigioni ed il 4º Reggimento del Canton Berna. Era presente anche una batteria d’artiglieria svizzera.

Fino al 1849 il reclutamento veniva svolto dalle autorità cantonali della Confederazione, tuttavia, in seguito al conflitto diplomatico venutosi a creare in quegli anni, il reclutamento nei Reggimenti Svizzeri venne delegato ad agenti privati nominati dai colonnelli elvetici in servizio nelle Due Sicilie. Gli ufficiali venivano prescelti tra gli elementi della borghesia dei Cantoni su proposta dei capitani delle Compagnie.[15]

Ciascun reggimento in conformità con i regolamenti borbonici si componeva di uno Stato maggiore di 20 ufficiali, uno Stato minore di 17 soldati e di due battaglioni, ognuno composto da 24 ufficiali e 684 soldati suddivisi in quattro compagnie fucilieri e 2 compagnie scelte, una di Granatieri e l’altra di Cacciatori. Le reclute svizzere accettavano l’ingaggio nell’Esercito delle Due Sicilie volontariamente per una ferma di quattro anni, alla fine dei quali potevano rinnovare per altri 2 o 4 anni di ferma, oppure congedarsi definitivamente. I soldati che avevano raggiunto i limiti di età, ma ancora abili al servizio militare e intenzionati a proseguire nella loro professione, potevano entrare a far parte di speciali compagnie dette dei “Veterani Svizzeri”.

Il compenso degli svizzeri era stabilito dalle capitolazioni col governo elvetico e generalmente era superiore a quello dei militari nazionali del Real Esercito. L’armamento, il munizionamento e l’addestramento invece erano uguali a quelli degli altri Reggimenti di Linea nazionali. La lingua ufficiale dei reggimenti svizzeri era il tedesco, e la giustizia era esercitata autonomamente da ogni Reggimento secondo i codici elvetici. I Reggimenti inoltre erano dotati sia di cappellani protestanti che cattolici.

I reggimenti svizzeri si distinguevano tra 1º, 2º, 3º e 4º in base ai numeri sui bottoni delle uniformi e al colore delle mostrine che erano celesti per il 1º Reggimento, verdi per il 2º, blu per il 3º e nere per il 4º. Le grandi uniformi dei Reggimenti Svizzeri erano rosse. I musicanti di ogni reggimento al contrario portavano l’uniforme dello stesso colore della mostrina del reggimento e le mostrine del colore del corpo di appartenenza. Le bandiere dei reggimenti svizzeri erano contraddistinte dall’avere su un verso lo stemma del Regno delle Due Sicilie, e al rovescio la croce bianca in campo rosso, simbolo della Confederazione Elvetica, con le armi dei cantoni dai quali il Reggimento aveva origine.

Individui dei Battaglioni Esteri nel 1860 (con la nuova uniforme)

Nel 1850 Ferdinando II ordinò anche la costituzione di un battaglione di cacciatori svizzero, il 13º, i cui individui avevano le stesse prerogative degli altri soldati svizzeri. L’uniforme per questo battaglione era la stessa degli altri battaglioni Cacciatori nazionali, verde scuro, e la sua funzione era, come quella degli altri battaglioni cacciatori, la guerra minuta in ambienti ostili.[39]

Nel 1859 scoppiò a Napoli una rivolta tra gli svizzeri, probabilmente fomentata da agenti provocatori esterni[40]. L’ammutinamento, originatosi nel 3º Reggimento Svizzero, fu ufficialmente causato dal provvedimento del governo elvetico, guidato in quel periodo dai radicali in seguito alle vicende del “Sonderbund“, volto a vietare le capitolazioni militari con le potenze straniere. Questa legge in particolare condannava gli svizzeri che avessero continuato a prestare servizio militare all’estero alla perdita della cittadinanza elvetica. Il clima era particolarmente teso tra le reclute giunte da poco dalla Svizzera, e si raggiunse l’esasperazione quando si diffuse la notizia che si sarebbero dovute cancellare le insegne dei cantoni di origine dalle bandiere dei reggimenti, in quanto il reclutamento non poteva più essere garantito dalle rispettive autorità cantonali. A quel punto buona parte del 3º Reggimento si diresse verso Capodimonte per chiedere spiegazioni al re Francesco II, ma, temendo una sommossa, il generale Nunziante comandò al 13º Battaglione Cacciatori di aprire il fuoco contro gli insorti, disperdendoli. Dopo questo controverso avvenimento, il governo napoletano decise di sciogliere i Reggimenti Svizzeri e di aggirare il problema delle capitolazioni con la Svizzera creando dei “Battaglioni Esteri” aperti al reclutamento straniero. Nelle fila di questi nuovi 4 Battaglioni Esteri confluirono i militari svizzeri rimanenti e anche molti volontari stranieri provenienti in particolare dal Regno di Baviera.[41]

Ordine di Battaglia (1859)[modifica | modifica wikitesto]

STATO MAGGIORE GENERALE

  • 50 ufficiali generali

Generale, Carabiniere a Cavallo, Lanciere, Cacciatore a Cavallo, Guida dello Stato Maggiore (1859)

CORPO DELLO STATO MAGGIORE

  • 1 Squadrone ed 1 Compagnia di Guide dello Stato Maggiore (scelte dalla Gendarmeria o dai Carabinieri)

CASA MILITARE DEL RE

  • Squadrone delle Guardie del Corpo a Cavallo
  • Compagnia delle Guardie del Corpo a Piedi

Granatiere, Guardia del Corpo, Carabiniere a Piedi, Svizzero e Cacciatori (1859)

Guardia del Corpo a Cavallo, Guardia d’Onore, Ussaro e Dragone (1859)

Artiglieri e Gendarmi (1859)

GUARDIA REALE

  • 2 Reggimenti di Granatieri della Guardia Reale
  • 2 Reggimenti di Ussari della Guardia Reale
  • Reggimento Cacciatori della Guardia Reale
  • Reggimento “Real Marina” (fanteria di marina, dipendente dall’Armata di Mare)
  • Battaglione Tiragliatori della Guardia Reale (fanteria leggera d’élite)

GENDARMERIA REALE

  • 5 Battaglioni a piedi e 5 Squadroni a cavallo (ordine pubblico)

TRUPPE DI LINEA

FANTERIA DI LINEA

  • 15 Reggimenti di Fanteria di Linea:
    • I Brigata
      • 1º “Re”
      • 2º “Regina”
    • II Brigata
      • 3º “Principe”
      • 4º “Principessa”
    • III Brigata
      • 5º “Borbone”
      • 6º “Farnese”
    • IV Brigata
      • 7º “Napoli”
      • 8º “Calabria”
    • V Brigata
      • 9º “Puglia”
      • 10º “Abruzzo”
    • VI Brigata
      • 11º “Palermo”
      • 12º “Messina”
    • VII Brigata
      • 13º “Lucania”
      • 14º “Sannio”
    • 15º “Messapia”
  • Reggimento Carabinieri a Piedi

16 Battaglioni di Cacciatori (fanteria leggera, ogni Battaglione era composto da 8 Compagnie)

CORPI SVIZZERI (fino al 1859)

  • 4 Reggimenti di Fanteria di Linea, 13º Battaglione Cacciatori

CORPI ESTERI (dal 1859)

  • 3 Battaglioni di Carabinieri Esteri ed 1 Battaglione di Veterani Esteri (ex Reggimenti Svizzeri)

CAVALLERIA DI LINEA

  • 3 Reggimenti di Dragoni: “Re”, “Regina” e “Principe”
  • 2 Reggimenti di Lancieri
  • Reggimento Carabinieri a cavallo
  • Reggimento Cacciatori a cavallo

CORPI FACOLTATIVI

CORPO REALE DI ARTIGLIERIA

  • 2 Reggimenti d’Artiglieria: “Re” e “Regina”
  • 15 Batterie d’Artiglieria a Cavallo (di cui una svizzera/estera)
  • Battaglione Artefici
  • Battaglione del Treno
  • Corpo degli Artiglieri Litorali (batterie dei Forti)
  • Corpo Politico d’Artiglieria (fabbricazione e custodia del materiale d’artiglieria)

CORPO REALE DEL GENIO

  • 2 Battaglioni di Zappatori-Minatori
  • Battaglione Pionieri
  • Officio Topografico (opere scientifiche e progetti di carattere militare)

ISTITUTI DI EDUCAZIONE MILITARE

  • Scuola di Applicazione di Artiglieria e Genio
  • Real Collegio Militare
  • Battaglione degli Allievi Militari

TRUPPE SEDENTANEE

  • Reali Veterani ed Invalidi
  • Compagnie di dotazione dei Forti

GUARDIA D’ONORE

  • Uno Squadrone per ogni Provincia del Regno (borghesi militarizzati a cui era affidata la scorta alla Famiglia Reale nelle varie Province)

Vita militare[modifica | modifica wikitesto]

L'”Ordinanza per lo governo, pel servizio e per la disciplina delle Reali Truppe nelle Piazze” del gennaio 1831 scandiva nei minimi dettagli la vita quotidiana delle guarnigioni. La sveglia, segnalata da tamburi e cornette, avveniva mezz’ora prima dell’alba in inverno ed all’alba in estate. Spettava ai secondi sergenti ed ai caporali delle compagnie controllare che le operazioni della sveglia fossero rispettate, ossia che la truppa si alzasse per lavarsi, vestirsi e ricomporre i posti letto. Se qualcuno si mostrava renitente a svegliarsi anche dopo più solleciti, era consuetudine che i compagni di camerata gettassero secchiate d’acqua sul malcapitato. Coloro che invece si erano svegliati per tempo avevano pochi minuti per recarsi dal barbiere o per bere qualcosa di “forte” (soprattutto il “caffè alla ussara” e lo “scassapetto”) in attesa del rancio. Tende e vetri della camerata restavano chiusi fino a quando tutti i militari non si fossero vestiti. Ogni soldato in genere dormiva su un saccone ripieno di paglia (o di foglie di granturco), il cui “ripieno” veniva cambiato ogni 3 mesi, adagiato su un letto formato da due scanni di ferro e da tre tavole di legno. Inoltre il soldato riceveva delle lenzuola e, in inverno, una coperta di lana grezza che dopo la sveglia dovevano essere accuratamente ripiegate. Il posto letto era infine completato da un “cappellinaio”, ovvero una mensola in legno su cui il soldato disponeva i differenti effetti dell’equipaggiamento, sulla base di ben precise istruzioni. La targhetta riportante nome e numero di matricola del soldato doveva sempre essere localizzata in maniera ben visibile.[42]

“Trombetto” dei Tiragliatori della Guardia Reale

Generalmente i soldati erano alloggiati in buone e numerose caserme, di costruzione perlopiù recente. Le truppe stanziate nei villaggi e nelle città invece dovevano essere acquartierate in edifici del demanio militare o, in caso di necessità, in alloggi privati requisiti. Le camerate, illuminate e riscaldate, venivano pulite ed ispezionate periodicamente, e due volte all’anno venivano imbiancate a calce viva. La sorveglianza delle camerate era affidata a due piantoni per ogni compagnia (detti “quartiglieri”), agli ordini di un caporale di quartiere designato giornalmente.

Tenuta di marcia e composizione dell’affardellamento

Le adunate avevano luogo tutti i giorni alla presenza dell’ufficiale di settimana, del sergente maggiore, del sergente e del caporale di settimana. Si procedeva per prima cosa all’appello della guardia montante, che veniva ispezionata dal sergente di settimana, il quale ne assumeva il comando sulla base di un calendario di turni. Successivamente si procedeva all’appello della truppa libera da servizi ed all’ispezione dei materiali. L’ispezione dei materiali avveniva su cicli bisettimanali sulla base di un ben preciso calendario suddiviso in “riviste giornaliere, settimanali o di dettaglio”. La truppa libera dai servizi armati o disarmati aveva libera uscita, che generalmente veniva trascorsa mangiando o bevendo vino nelle trattorie del luogo. Rientrati negli accantonamenti i militari erano sottoposti all’ispezione dell’ufficiale di settimana che, oltre ad accertarsi delle presenze, si accertava anche delle condizioni in cui i soldati erano rientrati nei quartieri, punendo eventuali infrazioni.

Colonna in marcia a Via Foria, Napoli

L'”assemblea” si teneva d’inverno alle 10:00 del mattino e d’estate alle 6:30. In quest’occasione venivano comunicati l’ordine del giorno ed il “santo”, cioè la parola d’ordine (costituita dal nome di un santo e da quello di una città come “contrassegno”). Infatti la sentinella non doveva permettere a nessuno di avvicinarsi senza riconoscimento, le persone eventualmente fermate venivano portate al posto di guardia. Le guardie duravano 24 ore consecutive, cui seguivano 24 ore di riposo. I turni di guardia erano generalmente di quattro giorni, in cui ogni soldato era tenuto a prestare 8 ore di sentinella.

I vari servizi a cui le truppe potevano essere addette erano suddivisi in “servizi armati” (in tempo di guerra o di assedio, scorte, guardie, ronde, pattuglie, ecc.) e “servizi disarmati” (lavori di caserma). Ogni compagnia di fanteria veniva suddivisa per il servizio interno in due plotoni, 4 sezioni ed 8 squadre: i plotoni erano affidati agli ufficiali subalterni, le squadre ai sergenti e le sezioni ai caporali. In cavalleria ogni squadrone era ripartito in quattro plotoni, comandati da un ufficiale coadiuvato da un sergente, ed in otto squadre al comando di un caporale.

I reparti dovevano esercitarsi ogni giorno tranne il sabato, nei giorni festivi ed in quelli con condizioni climatiche proibitive. In estate i soldati venivano istruiti anche nel nuoto. Le reclute, contraddistinte da una “R” di panno del colore delle mostre del reggimento cucita sul braccio destro, seguivano un ciclo di esercizi di 5 ore giornaliere per essere poi riunite in un battaglione destinato all’addestramento “ordinario”. Le esercitazioni per gli altri soldati invece avevano luogo di mattina dopo l’adunata, nei cortili delle caserme, per due ore giornaliere. Alle ore 9:30 era consegnato il rancio. Due volte alla settimana avevano luogo dei “campi di brigata”, con affardellamento completo. Per le truppe della capitale inoltre ogni venerdì era previsto un “campo reale”: le truppe dovevano recarsi al Campo di Marte (l’attuale Capodichino) prima delle ore 13:00, quindi inquadrarsi ed attendere l’arrivo del re. Una volta passate in rassegna le truppe con lo Stato Maggiore, il sovrano assumeva la direzione delle esercitazioni. Tali occasioni attiravano un numeroso pubblico a cui Ferdinando II giocava spesso degli scherzi, consistenti il più delle volte in finte cariche alla baionetta da parte delle compagnie in evoluzione, le quali si arrestavano prontamente solo a pochi centimetri dagli astanti, provocando in genere una grande impressione. Il re quindi ricompensava le truppe che avevano partecipato alle manovre con una paga giornaliera raddoppiata, seguiva poi un intervallo musicale offerto delle varie bande reggimentali ed infine, al tramonto, la preghiera serale.[42]

Razioni di viveri in campagna

Contenuto del “Cassettino del Cerusico”

Le varie “corvees” erano coordinate dal caporale di settimana e scrupolosamente assegnate sulla base di un calendario pubblicato nei locali della compagnia. Esse consistevano nel trasporto del rancio e dell’acqua per le cucine ed i corpi di guardia, nel trasporto della legna per il riscaldamento, nel trasporto del pane, nel cambio della biancheria e dei posti letto e nell’acquisto di viveri per il rancio. Quest’ultima corvee era quella più contesa e che riceveva i maggiori favori da parte della truppa: il drappello di spesa, al comando di un caporale di mensa, usciva ogni giorno dai quartieri per fare acquisti. Il conto della spesa veniva saldato in contanti dal caporale di mensa, quindi i rifornimenti acquistati erano in seguito pesati e controllati dall’ufficiale responsabile e dai cucinieri per essere poi portati nelle cucine.[42]

Il rancio dei soldati, che le testimonianze del tempo ci dicono di ottima qualità, veniva somministrato una volta al giorno (il pasto serale era a pagamento). Esso consisteva in maccheroni, minestre con generose razioni di carne o, nei giorni di magro, in baccalà. I soldati erano inoltre dotati giornalmente di 24 “once” di pane integrale (0,653 kg). I pasti erano consumati nelle gavette individuali, che restavano presso le cucine incastellate l’una sull’altra. Il soldato era ovviamente fornito anche di una gavetta da zaino per le razioni da consumare in campagna, molto simile alle gavette tuttora usate dall’Esercito Italiano. Il rancio non poteva essere distribuito se non dopo l’assaggio da parte del maggiore di settimana o del capitano di picchetto, seguito dal segnale di tromba o tamburo che autorizzava i soldati ad entrare nelle cucine sotto la vigilanza di un piantone di mensa armato. Nelle cucine venivano ritirate le gavette piene, che però venivano consumate nei corridoi della camerate su appositi tavoli a 4 posti. Dopo circa 30 minuti i cucinieri salivano nelle camerate per ritirare le stoviglie. I sottufficiali e gli ufficiali invece consumavano i loro pasti in apposite “sale mensa”. Il loro pasto generalmente consisteva in un piatto di minestra, due piatti di verdura, due di carne, dessert, pane, formaggio, frutta fresca, frutta secca e vino. La sera potevano essere richiesti piatti di carne fredda, formaggio, salumi e vino. Particolarmente curato era anche l’apparato da tavola delle mense, con varie suppellettili, biancheria da tavola e pentole di rame lucido.[42]

Per quanto riguarda l’igiene collettiva ed individuale erano previsti controlli ed ispezioni continue per accertare il rispetto delle norme basilari d’igiene necessarie in una collettività. Nei mesi caldi i soldati erano obbligati a fare dei bagni, prestando comunque attenzione a particolari ritrosie o pudicizie. Ogni giovedì, e durante le marce anche più volte al giorno, venivano controllati con scrupolosità taglio dei capelli e pulizia personale (collo, orecchie e piedi in particolare): durante le marce per questo compito venivano approntate opportune lavande di acqua ed aceto. La biancheria personale era cambiata ogni settimana e ritirata dal caporale di servizio, essa era consegnata a lavandaie che la restituivano il sabato successivo. Molti soldati, più esigenti, però curavano la pulizia della biancheria per proprio conto. Ogni giorno, dopo la sveglia, il caporale di settimana al grido di “chi è malato?” prendeva i nominativi di quanti intendessero “marcare visita” presso l’infermeria reggimentale o l’ospedale. Visite sanitarie generali erano previste ogni anno da parte del Primo Chirurgo del Reggimento, che ordinava poi gli eventuali ricoveri.[42]

Un quarto d’ora dopo il silenzio, suonato con tamburi e cornette, i sottufficiali procedevano al contrappello nei posti letto. I ritardatari erano annotati e non potevano più rientrare in caserma, dato che le porte dei quartieri venivano chiuse al segnale del silenzio.[42]

Tabella dell’Orario pè Corpi di Fanteria
Segnali
Gennaio, Febbraio, Marzo, Aprile, Novembre, Dicembre
Maggio, Settembre, Ottobre
Giugno, Luglio, Agosto
Sveglia
Mezz’ora prima dell’aurora
All’aurora
All’aurora
Visita
Mezz’ora dopo la sveglia
Mezz’ora dopo la sveglia
Mezz’ora dopo la sveglia
Esercizi
Mezz’ora dopo la visita
Mezz’ora dopo la visita
Mezz’ora dopo la visita
Rancio
Alle 9:30
Alle 9:30
Alle 10:00
Assemblea ed eventuale Bando
Alle 10:00
Alle 10:00
Alle 6:30
Uscita
Alle 13:00
Alle 14:00
Alle 15:00
Ritirata
Mezz’ora prima del tramonto
Mezz’ora prima del tramonto
Mezz’ora prima del tramonto
Silenzio
2 ore e mezza dopo la ritirata
2 ore dopo la ritirata
Un’ora e mezza dopo la ritirata

Trattamento economico[modifica | modifica wikitesto]

“Prest giornaliero” per sottufficiali e truppa

Lo stipendio degli ufficiali era costituito da un “soldo” mensile in cui era compreso “alloggio e mobilio”, e da un “soprassoldo” variabile in base all’arma o corpo di appartenenza. Sul “soldo” gravava una ritenuta del 2% che concorreva a formare il fondo pensione. Dopo 40 anni di servizio, o al compimento del 60º anno d’età, era possibile ottenere quindi il ritiro, con una pensione pari all’intero “soldo” semplice. Naturalmente l’ufficiale poteva ritirarsi anche anticipatamente per motivi di salute: in questo caso la pensione però era erogata in forma ridotta, a seconda dell’anzianità di servizio. Lo stipendio minimo per un ufficiale corrispondeva a 23 ducati mensili (alfiere della fanteria di linea), lo stipendio massimo invece corrispondeva a 290 ducati mensili (tenente generale). Facendo le dovute proporzioni, gli ufficiali del Real Esercito generalmente avevano un trattamento economico leggermente migliore, sotto ogni punto di vista, rispetto ai parigrado dell’Armata Sarda.[15]

Il trattamento economico della truppa invece si basava soprattutto su un “prest” giornaliero, variabile a seconda dei corpi, e su “assegni mensili” per “vestiario” e “mantenimento”: questi assegni però non erano versati direttamente ai militari, ma solo ai Consigli di Amministrazione dei Reggimenti di appartenenza, i quali gestivano il vestiario ed il mantenimento per conto di ogni militare. I soldati impiegati in servizi armati ricevevano una “diaria di colonna mobile”, variabile in funzione del grado e dell’impiego del reparto di appartenenza. I militari con almeno 10 anni di servizio inoltre avevano diritto ad un assegno di anzianità, che consisteva in un aumento graduale del “prest giornaliero” direttamente proporzionale al periodo trascorso sotto le armi. Il “prest giornaliero” della truppa andava dai 10 grana del soldato semplice di fanteria di linea ai 54 grana dell’aiutante di battaglione. L’assegno mensile per il vestiario corrispondeva ad 80 grana, quello per il mantenimento a 40 grana. L’assegno di anzianità consisteva in un aumento del “prest giornaliero” di 1 grana per i militari con almeno 10 anni di servizio e di tre grana per quelli con più 25 anni (medaglia di veteranza). Sulla base della conversione da ducati borbonici in lire italiane del 1862 (1 ducato = 4,25 lire) si ricava che il “prest” dei soldati borbonici era in linea con quello dei soldati sabaudi, ma già i sottufficiali del Real Esercito percepivano una paga decisamente migliore rispetto ai sottufficiali sardi (circa il 20% in più)[15]. Da notare inoltre che il costo della vita nelle Due Sicilie era alquanto contenuto e che il valore della moneta napoletana era più elevato della moneta piemontese. Per avere un’idea dell’entità degli stipendi dei soldati napoletani è possibile paragonare la loro paga giornaliera a quella degli operai dell’epoca: gli operai campani ricevevano in media una paga giornaliera di circa 40/50 grana (quelli delle province più povere circa la metà), gli operai metalmeccanici 75 grana al giorno ed i capi-operaio circa 85 grana al giorno. I prezzi inoltre erano alquanto stabili e bassi: una pizza costava mediamente 2 grana, 0,75 L di vino 2 grana, 1 kg di pane 6 grana, 1 kg di pasta 8 grana, 1 kg di carne bovina 16 grana ed 1 kg di formaggio 32 grana. L’affitto medio per un’abitazione operaia corrispondeva a circa 12 ducati annui.[15]

Equipaggiamento e armamento[modifica | modifica wikitesto]

Le bandiere[modifica | modifica wikitesto]

Caporale del 1º Reggimento Svizzero dotato di guidone segnafile

La bandiera tricolore adottata nel 1859

Verso della Bandiera reale del 15º Reggimento Fanteria di Linea “Messapia” (1859)

Le bandiere delle unità militari del Real Esercito erano caratterizzate in linea di massima dal colore di fondo bianco, su cui campeggiavano le grandi armi araldiche del Regno delle Due Sicilie, e, al verso, le insegne dell’Ordine Costantiniano, appannaggio borbonico per eredità farnesiana (la famiglia Borbone di Napoli ne aveva ereditato il Gran Magistero con Carlo, figlio di Elisabetta Farnese). Eccezioni a questa regola erano rappresentate dalle bandiere della Guardia Reale (con fondo rosso scuro, colore dinastico) e da quelle dei Reggimenti Svizzeri, che al verso portavano la croce bianca elvetica in campo rosso con i relativi stemmi dei Cantoni di reclutamento della truppa. Il tricolore italiano era apparso per la prima volta sulle bandiere del Real Esercito durante la parentesi costituzionale del 1848 (a cornici concentriche attorno al consueto campo bianco). Alla fine del 1859 tuttavia Francesco II decise di riadottare il tricolore, questa volta nelle tradizionali bande verticali, nell’estremo tentativo di far risaltare la natura “italiana” delle truppe dinastiche, volto ad inaugurare simbolicamente un nuovo percorso politico di riforme. Anche queste insegne, come quelle bianche precedenti, recavano sul bordo inferiore le denominazioni reggimentali, e, nel settore bianco, gli emblemi tradizionali.[15]

Ogni reggimento di fanteria riceveva in dotazione due “bandiere reali” e due “banderuole di manovra”.

Le “bandiere reali” fino alla fine del Settecento erano costituite dai tradizionali bastoni di Borgogna rossi incrociati, di eredità spagnola. Successivamente fu adottata la simbologia precedentemente descritta, con le insegne dell’Ordine Costantiniano e le armi del Regno delle Due Sicilie in campo bianco. Alcuni corpi portavano agli angoli del drappo i distintivi della specialità o i gigli con serti di alloro. Le aste delle bandiere erano in legno dipinto a fasce spirali rosso/bianche, come pure rosse e bianche erano le cravatte (colori dinastici).[15]

Ogni Battaglione era dotato di una “banderuola di manovra”, il cui colore mutava a seconda del reparto. Ogni compagnia era inoltre dotata di caratteristiche “guide generali segnafile”, che i sottufficiali di compagnia inastavano sulle canne dei propri fucili. Queste “guide generali segnafile” erano un elemento tradizionale delle truppe borboniche: venivano usate per indicare gli allineamenti sul campo, posizionando un caporale di compagnia a sinistra ed uno a destra della colonna, i quali erano dotati di guide di colore diverso (generalmente rosso e bianco). Ogni guidone recava agli angoli l’emblema della specialità e, al recto, la dicitura “Guide Generali” con la denominazione dell’unità. L’uso di questi guidoni si dimostrò particolarmente efficace nelle operazioni anfibie per la riconquista della Sicilia nel 1849: alcuni esploratori del Reggimento “Real Marina” scesero a terra per innalzare i guidoni, in modo da consentire un più rapido ammasso dei soldati successivamente sbarcati.[15]

Le uniformi e l’equipaggiamento[modifica | modifica wikitesto]

Artigliere napoletano (1734)

L’ultima uniforme adottata dal Real Esercito nel 1859

Le prime uniformi del Real Esercito furono di tipo spagnolo, conformi all’Ordinanza del 1728. La più antica fonte in grado di darci un’idea delle prime uniformi napoletane è l’Ordinanza del 1744 sulla costituzione dei 12 reggimenti provinciali: i soldati di questi reggimenti dovevano essere dotati di una “giamberga” (giacca) lunga fino al ginocchio, un “giamberghino” (panciotto con maniche) lungo poco meno della giamberga, calzoni lunghi fino al ginocchio, ghette che superassero l’altezza del ginocchio (la cavalleria era dotata di stivaloni con speroni), una camicia bianca ed un cravattino nero. L’abbigliamento era completato da un tricorno di feltro nero dotato di una coccarda rossa sull’ala sinistra. Alcuni particolari delle uniformi (bottoni, risvolti, ricami, buffetterie, colori in generale) variavano a seconda del grado e del reparto (gli ufficiali per esempio erano tradizionalmente dotati di una goliera su cui erano impressi i gigli borbonici). Negli anni settanta del Settecento furono introdotte alcune novità: le giacche vennero notevolmente accorciate e le uniformi snellite. Con il decennio francese si ebbero innumerevoli evoluzioni anche per quel che riguarda le uniformi: in un primo tempo si seguì il modello napoleonico francese, ma poi venne dato all’esercito napoletano una spiccata impronta locale, soprattutto per volere di Murat. Le innovazioni apportate da Murat furono in parte conservate dopo la restaurazione, subendo evoluzioni dettate principalmente dalle mode germaniche del tempo[43], ma l’avvento al trono di Ferdinando II determinò nuovi indirizzi anche nel settore delle uniformi. A partire dal 1830 infatti l’uniforme borbonica fu ridisegnata sulla base dello stile “Luigi Filippo” francese: da allora fino alla caduta del regno l’influenza francese rimase evidente in quasi tutti gli equipaggiamenti borbonici.

Uniformi dell’Esercito (1852)

Shakot scoperto e con telo incerato da Granatiere (nappina rossa) del 12º Reggimento Fanteria di Linea

Uniformi dell’Esercito (1852)

Elmo da Dragone

Zappatore, Tamburo Maggiore, Soldato in cappotto, Tamburo, Caporal Tamburo e Musicante del 4º Reggimento Fanteria di Linea “Principessa”

Le uniformi in dotazione al Real Esercito dell’ultimo trentennio erano così costituite:

  • Abito a falde (giamberga) blu scuro per tutti i corpi (rosso per gli Svizzeri). I corpi a cavallo erano dotati di giamberghe con falde più corte, mentre per i Cacciatori era in uso un giubbetto di colore verde scuro senza falde (detto “spenzer”). Le spalline erano per i fanti del colore del reggimento (dorate per gli ufficiali). A partire dal 1859 si cominciò a dotare l’Esercito di una nuova uniforme, in cui la giamberga era sostituita da una più moderna tunica blu scuro o grigio-azzurra, a seconda della tenuta.
  • Soprabito blu scuro (per ufficiali) o “bigio” (per truppa) a due petti. L’uniforme bigia era, fin dalle guerre napoleoniche, generalmente usata dalle truppe napoletane al posto della meno pratica giamberga: essa era dotata di bottoni ricoperti di stoffa e di mostrine al colletto di colore distintivo indicanti la specialità ed il corpo.
  • Giacca “da travaglio” blu, senza falde, per Cavalleria, Artiglieria e Genio (usata al posto del soprabito in dotazione agli altri corpi).
  • Cappotto grigio-azzurro per le stagioni fredde, dotato di mostrine.
  • Cappotto bianco con mantellina e cappuccio per i corpi a cavallo.
  • Pantaloni rossi per le fanterie, celeste scuro per gli Svizzeri, blu scuro per Artiglieria e Genio e grigi per i Cacciatori. A partire dal 1859 divennero predominanti i pantaloni grigio-azzurri da indossare con la nuova tunica.
  • Pantaloni grigi per marce o campagne da usare con l’uniforme bigia.
  • Calzoni estivi bianchi per tutti i corpi.
  • Ghette nere d’inverno e bianche d’estate.
  • Uose grigie usate con il soprabito ed i pantaloni “bigi” in marcia o in campagna.
  • Shakot conico tronco di feltro nero con visiera e guarnizioni in cuoio nero e filettature rosse (dorate per gli ufficiali), dotato di piastra frontale in ottone indicante la specialità o il reggimento. Durante le marce poteva essere coperto da una fodera di tela cerata nera su cui era dipinto il numero o il fregio dell’unità. Nappine del colore dell’unità di appartenenza.
  • Elmo a ciniglia per Dragoni e Guardie del Corpo a Cavallo.
  • Elmo a criniera ricadente per i Carabinieri a Cavallo.
  • Czapka per i Lancieri.
  • Berrettone di pelo d’orso nero per Guardie del Corpo a Piedi, Granatieri della Guardia Reale, compagnie scelte dei Carabinieri a Piedi e compagnie scelte della Gendarmeria.
  • Chepì, berretto a visiera di panno morbido, di norma usato con il soprabito in tenuta da marcia, blu per quasi tutti i corpi (rosso per Ussari, Lancieri, Stato Maggiore e generali). Il chepì era dotato di un distintivo anteriorie indicante il corpo di appartenenza, oltre che di gallonature e ricami indicanti il grado.
  • Bonetto, bustina di panno blu scuro con filettature rosse, usato insieme all’uniforme bigia. Il bonetto era dotato di distintivi sulla parte anteriore indicanti il corpo di appartenenza.

Le uniformi dei Lancieri e degli Ussari erano quasi del tutto identiche a quelle delle analoghe specialità dell’esercito francese, i corpi della Guardia Reale inoltre aggiungevano alle bottoniere sul petto nove brandeburghi argentati o dorati. I Guastatori, che generalmente si trovavano alla testa delle colonne in marcia, avevano, come i granatieri, un colbacco d’orso nero dotato di nappina rossa. Inoltre erano dotati di un grembiale di cuoio bianco (o nero per alcuni corpi), guanti con paramano ed elaborati attrezzi da lavoro. I guastatori dovevano farsi crescere anche una barba fluente. I distintivi di grado e di anzianità erano rappresentati da spalline, goliere (ufficiali), galloni, galloncini sui paramani dei soprabiti e da una sciarpa bianca e rossa per i generali.[15]

Le rinomate fanfare dell’esercito napoletano avevano un abbigliamento tradizionalmente ricco e curato. I Tamburi maggiori (cioè coloro che si trovavano a capo delle bande militari), già di per sé prestanti, nelle parate sfoggiavano voluminosi colbacchi di pelo dotati di pennacchi, spalline d’oro o d’argento, cordelline di seta del colore del reparto d’appartenenza ed un’appariscente daga a tracolla. Gi abiti erano arricchiti con alamari e ricami all’ungherese in oro o argento. Il budriere era del colore distintivo del reparto, gallonato con i colori della livrea reale e recante al centro le armi del reame. La tipica mazza di legno scuro con pomo in argento era intrecciata per tutta la lunghezza da due cordoni d’argento e seta rossa (i colori della livrea reale), con grossi fiocchi simili. Ancora più ricche erano le uniformi dei Tamburi maggiori della Guardia Reale, che indossavano ancora calzoni attillati e stivaletti di pelle morbida bordati da pellicce esotiche, secondo la moda tardo-napoleonica. Gli altri musicanti (pifferi, tamburi e cornette) erano vestiti con le giamberghe in dotazione e con lo shakot o il colletto del colore del reparto di appartenenza (rosso per la Guardia Reale, che era dotata anche di colbacco per la gran tenuta). Il collo, i paramani e le maniche erano ornati con gallonature del colore della livrea reale.[15]

Anche le buffetterie erano ispirate ai modelli francesi. L’uomo a piedi era dotato di budriere di cuoio porta sciabola e porta baionetta, una bandoliera di cuoio con una grande giberna (ornata di fregi metallici) ed uno zaino in cuoio con bretelle (“mucciglia”). In tenuta da campagna erano inoltre usati un tascapane di tela (“sacco a pane”) ed una borraccia (“fiasca”) di vetro ricoperta da uno spesso strato di cuoio con boccaglio in piombo e cappelletto a vite. I generi erano confezionati in pellami di produzione nazionale, dotati di una certa robustezza e dipinti generalmente di bianco. Solo i Cacciatori ed i Tiragliatori erano dotati di cuoiami anneriti artificialmente con miscele sintetiche, lo stesso tipo di miscele usate anche per lucidarli. Con l’introduzione delle armi a percussione rigate, avvenuta all’inizio degli anni cinquanta, i reparti cominciarono ad essere dotati di nuove buffetterie di tipo moderno: cioè un cinturone in vita con accessori (giberna, porta-daga/baionetta, borraccia, borsetto porta-capsule) a scorrimento, dotato di un robusto sistema di bretelle per lo zaino. I reparti a cavallo invece erano dotati generalmente di una bandoliera di cuoio bianco o nero, dotata di una piccola gibernetta recante guarnizioni e fregi in ottone variabili a seconda del reparto di appartenenza (lance incrociate per i Lancieri, granate per i Dragoni, cannoni con granata per gli Artiglieri, cifre e trofei reali per i corpi della Guardia Reale, ecc.). La sciabola individuale era assicurata da una robusta cintura dotata di bretelle. Solo i Dragoni avevano in dotazione anche una baionetta, in quanto la natura della loro specialità contemplava anche combattimenti a piedi. Gli Ussari spiccavano per l’elegante cinturino in pelle, dal quale si dipartivano le bigliere della sciabola e le bretelle della caratteristica “sabretache” di pelle nera, recante un grande fregio d’ottone con armi reali ed il numero del reggimento. I cavalli erano generalmente dotati di selle all'”inglese” poste su gualdrappe dai colori distintivi e arricchite dai fregi di reparto.[15]

In generale si distinguevano 3 tipi di dotazione, in uso ai singoli militari o ai reparti del Real Esercito:

  • “Dotazione individuale”: gavetta, borraccia, posate, pettine, buffetterie, accessori per la pulizia personale e delle armi, ecc.
  • “Dotazione di compagnia”: imballata in “bariloni” (accessori per la cucina da campo) ed in “cassettini” (registri e altri piccoli oggetti per sostituire o riparare l’equipaggiamento individuale dei soldati).
  • “Dotazione del corpo”: trasportata in otto cassettini someggiabili o trasportabili su carrette reggimentali (cassettino dell’ufficio del Comandante, cassettino dell’ufficio Ruoli e Riviste, cassettino del Consiglio di Amministrazione, cassettino del Cerusico, cassettino dell’Armiere, cassettino del Capo Sarto e cassettino del Capo Calzolaio).

Erano infine minuziosamente previste le dotazioni per la Cappella, la Mensa e la Scuola reggimentale.[15]

Colori distintivi
Unità
Mostre
Bottoni
I Brigata di Fanteria (1º e 2º di Linea)
rosso
oro/argento
II Brigata di Fanteria (3º e 4º di Linea)
giallo
oro/argento
III Brigata di Fanteria (5º e 6º di Linea)
cremisi
oro/argento
IV Brigata di Fanteria (7º e 8º di Linea)
azzurro
oro/argento
V Brigata di Fanteria (9º e 10º di Linea)
arancio
oro/argento
VI Brigata di Fanteria (11º e 12º di Linea)
verde
oro/argento
VII Brigata di Fanteria (13º e 14º di Linea)
violetto
oro
15º Reggimento Fanteria di Linea “Messapia”
violetto
argento
1º e 2º Reggimento Dragoni
rosso
argento
3º Reggimento Dragoni
giallo
argento
1º Reggimento Svizzero
azzurro
oro
2º Reggimento Svizzero
blu
oro
3º Reggimento Svizzero
verde
oro
4º Reggimento Svizzero
nero
oro

Armamento individuale[modifica | modifica wikitesto]

Carabina rigata da 32 pollici consciabola-baionetta a “yatagan” in dotazione ai Cacciatori

Sciabola mod. 1829 (Labruna)

Lanciere con pistola

La prima manifattura d’armi borbonica fu istituita nel 1742 presso l’Armeria Reale del Castelnuovo a Napoli e trasferita nel 1759 presso Torre Annunziata. Qui, sotto la direzione del colonnello Augusto Ristori, la produzione e la qualità delle armi fu notevolmente incrementata, anche grazie all’ausilio di alcuni celebri armaioli, come l’avellinese Michele Battista, che progettò gli ottimi fucili mod. 1777 e 1788. Tuttavia la mobilitazione del 1798 rese necessario acquistare armi dall’estero, tra cui una cospicua partita di pessimi fucili austriaci, che resero disomogeneo nella dotazione e nei calibri l’armamento dei reggimenti napoletani impegnati a combattere le truppe francesi dal 1798 al 1806.[44]

Prima del riordinamento voluto da Ferdinando II all’inizio degli anni trenta, le armi bianche in dotazione ai militari del Real Esercito erano per la maggior parte di derivazione napoleonica (alcuni reparti le conservarono fino al 1861): per esempio le Guardie del Corpo a Cavallo erano dotate della sciabola a lama dritta per cavalleria pesante mod. 1786 francese, la Gendarmeria era dotata della sciabola a lama dritta mod. “anno XI” per Dragoni francese, gli Ussari invece avevano la sciabola mod. 1796 inglese per cavalleria leggera. Con l’ordine del giorno 10.4.1829 furono introdotti nuovi modelli di armi bianche per i corpi a piedi: la sciabola introdotta quell’anno, di tipo napoletano, caratterizzata da un pomo a testa di drago, rimase in uso fino al 1861. Inoltre i fanti dovevano essere dotati di un “briquet“, derivante dal mod. 1816 francese, ed i guastatori di una pesante daga con lama a sega (oltre che di appariscenti asce ed attrezzi da lavoro).[15]

Nel corso degli anni trenta l’armamento individuale, in particolare per la cavalleria, andò pian piano evolvendosi: a partire dal 1834 le Guardie del Corpo a Cavallo, gli Ussari, i Lancieri ed i Dragoni adottarono una sciabola derivata dal mod. 1822 francese per cavalleria: a lama curva per la cavalleria leggera ed a lama dritta per la cavalleria pesante. I modelli per ufficiali erano spesso di ottima fattura, riccamente cesellati e molte volte prodotti da insigni armaioli napoletani (come il Labruna). L’artiglieria a cavallo fu dotata di una caratteristica sciabola a lama ricurva, i Lancieri nel 1843 adottarono un nuovo tipo di lancia dal tipico disegno della lama. La sciabola per i corpi a piedi introdotta nel 1829 venne gradualmente rimpiazzata da un modello derivante dal tipo 1845 francese per fanteria. Negli anni cinquanta nei Battaglioni Cacciatori furono introdotte le caratteristiche sciabole-baionetta (dette “yatagan“), distribuite assieme alle prime carabine.[15]

A partire dalla seconda metà degli anni trenta l’amministrazione militare napoletana sperimentò a lungo diversi sistemi di accensione per le armi da fuoco individuali, nell’intento di sostituire i vecchi modelli a pietra focaia. Gli esperimenti giunsero a conclusione nel 1843, anno in cui il Real Esercito adottò il sistema di accensione acapsule fulminanti. I fucili da 40 e 38 pollici allora esistenti furono quindi riconvertiti e dotati di piastra “a molla avanti”, fu inoltre disposta la produzione presso la Manifattura Reale di Napoli di un nuovo modello con piastra “a molla indietro” ispirato al mod. 1842 francese. I Battaglioni Cacciatori furono tra le prime unità ad essere equipaggiate con le nuove armi, tuttavia i Cacciatori adottarono ben presto la carabina da 32 pollici rigata, a stelo (modello Minié). Successivamente, dal 1850, essi ricevettero in dotazione la carabina da 32 pollici “a maschietto” ed il moschetto da 28 pollici. I Cacciatori svizzeri erano inoltre dotati della carabina svizzera mod. 1851 a percussione.[15]

In sintesi le armi da fuoco in dotazione ai militari del Real Esercito verso la metà degli anni cinquanta erano le seguenti:

  • Fucili da 38 e 40 pollici: Reali Guardie del Corpo a Piedi, Fanteria di Linea nazionale e svizzera, Fanteria della Guardia Reale, Carabinieri a Piedi e unità della riserva. Dotati di baionetta a manicotto e ghiera.
  • Carabina rigata da 32 pollici: Cacciatori, Tiragliatori della Guardia Reale. Dotata di sciabola baionetta.
  • Moschetto da 28 pollici: Reali Guardie del Corpo a Cavallo (a percussione), Carabinieri a Cavallo, Dragoni, Gendarmeria, Artiglieria, Zappatori e Pionieri, allievi degli istituti militari. Dotato di sciabola baionetta.
  • Moschetto corto da 22 pollici: Ussari.
  • Fucile a cassa corta da 38 pollici: Cacciatori a Cavallo.

A partire dal 1858 la rigatura delle canne fu estesa anche ai fucili da fanteria da 38 e 40 pollici ed ai moschetti da 28 pollici. L’adozione generale della rigatura, presente nelle armi napoletane già dalla fine del Settecento, fu decisa a seguito dei buoni risultati ottenuti con l’uso delle palle cilindrico-ogivali ad espansione. Negli ultimi anni di vita del regno vennero sperimentati diversi modelli di armi rigate, dei quali entrò in produzione solo il moschetto da 28 pollici per artiglieria, detto “mod. 60”. Nel 1860 l’armamento individuale dell’esercito borbonico non era del tutto rammodernato, molte unità territoriali conservavano armi a pietra focaia, così come erano a pietra focaia la maggior parte delle pistole in dotazione alla cavalleria (in quanto le se attribuivano scarse possibilità di utilizzo delle armi da fuoco). Tuttavia non mancarono studi e sperimentazioni di nuove armi individuali, anche a retrocarica, che non riuscirono a giungere a conclusione prima della caduta del regno.[15]

Artiglierie[modifica | modifica wikitesto]

Pezzo d’artiglieria da campagna (1827)

Obici-cannoni di tipo “Millar” usati dall’Artiglieria borbonica durante l’assedio di Gaeta

Pezzi usati per la difesa costiera (1850)

Affusto “Marcarelli” per artiglieria costiera

Già con il governo vicereale austriaco furono fondate fonderie e laboratori di munizioni in grado di costruire bocche da fuoco che andassero a sostituire i vecchi pezzi seicenteschi di tipo Vellière in uso nel Regno di Napoli. Nel 1717 vennero prodotti presso Castel dell’Ovo i primi nuovi pezzi da 30 modello Kolmann, nel 1734 si iniziarono a produrre nuovi cannoni di bronzo, petrieri e mortai con relative bombe presso gli stabilimenti napoletani. La produzione di questi pezzi continuò per i successivi 50 anni, fino al 1787, quando arrivò a Napoli il brigadiere francese Francois Renè de Pommeroul con il compito di ammodernare l’artiglieria borbonica. In quello stesso anno giovani ufficiali furono inviati in missione di studio in Francia per apprendere strategie e tecniche per la costruzione di artiglierie del nuovo tipo Gribeauval. Nel 1798 Pommereul quindi dotò la Fonderia di Napoli di una più moderna barena per la foratura dei pezzi, di due fornaci a riverbero e di officine e macchinari per lo stampo, la carenatura e la rifinitura dei pezzi.[45]

A partire dal 1835, sotto il forte impulso del Direttore dei Corpi Facoltativi gen. Filangieri, l’esercito borbonico dette inizio ad un vasto programma di rinnovamento dei materiali d’artiglieria. A questo scopo fu mandato in missione il cap. D’Agostino in Francia, nazione in cui era da poco stato adottato il modello 1827. La successiva riforma napoletana aggiunse al modello francese numerose modifiche ed innovazioni originali, dovute in buona parte al ten. col. Landi, allora direttore dell’Arsenale di Napoli. Il nuovo modello d’artiglieria adottato dal Real Esercito fu definito “Modello Comitato”, e introdusse nuove bocche da fuoco e materiali per l’artiglieria da campagna, da montagna, da piazza e da costa.[15]

Per l’artiglieria da campagna vennero adottate 4 diverse bocche da fuoco: un cannone da 12 libbre ed un obice da 6 pollici (obice lungo) per le batterie da posizione, un cannone da 6 libbre ed un obice da 5.6 (obice-cannone) per le batterie da battaglia. I due cannoni conservarono tutte le caratteristiche del sistema “anno XI” francese, i due obici invece furono riadattati secondo le esigenze locali. Gli affusti erano del tipo “a freccia”, dotati di ferramenta in ferro battuto (e non in ghisa come i modelli francesi) per irrobustirli. Le ruote erano strutturate su 12 razze (invece delle tradizionali 14) per aumentare la robustezza del mozzo. Particolarmente interessante fu l’innovazione apportata dai tecnici napoletani per mantenere il timone dei treni in posizione orizzontale (detto sistema a “frottone”). Le batterie montate erano dotate di numerose vetture a 6 o 12 cavalli con le quali, oltre ai pezzi, venivano trasportati materiali, munizioni e fucine.[15]

Nel 1841 si decise di sostituire l’obice da 8 libre (106 mm) dell’artiglieria da montagna con un obice da 12 libbre (122 mm) su affusto a freccia di nuova concezione. Il materiale delle batterie da montagna era quasi tutto someggiabile (“a schiena”) o trainabile a braccia (“a strascino”). Lo stesso obice da 12 libbre armò in seguito altre batterie da impiegarsi per operazioni anfibie.[15]

Per l’artiglieria da assedio e da piazza si adottò un cannone da 12 libbre ed un obice da 5.6 simile al tipo da campagna. Gli affusti a ruote erano simili a quelli da campagna, ma vi erano altri affusti costruiti espressamente per i servizi d’assedio e da difesa. Il primo modello di questi nuovi affusti fu costruito con una gettata di ghisa presso le Fonderie di Mongiana nel 1841. Nel 1844 fu introdotto l’affusto “De Focatiis”, che razionalizzava in maniera originale il vecchio tipo “Gribeauval” di derivazione francese, usato anche per pezzi di calibro maggiore.[15]

La difesa costiera impiegava cannoni da 12, 24 e 33, nonché gli obici-cannoni da 80 (219 mm) e 30 (169 mm) alla “Paixhans” per il tiro delle granate. Queste bocche da fuoco erano gettate in ferro e incavalcate su affusti “De Focatiis”. Erano inoltre impiegati gli obici-cannoni da 60 (204 mm) di tipo “Millar”, a camera conica, incavalcati su affusti di tipo “Marcarelli” appositamente studiati per permettere il tiro con forte angolo di depressione.[15]

Nel Real Esercito si seguì molto attentamente l’evoluzione dell’artiglieria in quegli anni e furono condotte attivamente operazioni per il perfezionamento e la rigatura delle bocche da fuoco. Dal 1840 al 1845 si effettuarono studi ed esperimenti per la sostituzione della ghisa al bronzo per i pezzi da campagna, portando tuttavia a risultati giudicati non soddisfacenti. Nel 1859, dopo gli incoraggianti risultati ottenuti quello stesso anno sul campo di Montebello, si costruirono nell’Arsenale di Napoli artiglierie da 8 e 16 libbre rigate secondo il sistema “La Hitte” a 6 righe elicoidali (evoluzione del sistema Cavalli, a 2 righe), utilizzando macchinari ideati dal col. Afan de Rivera. Alcune di queste bocche da fuoco furono utilizzate nell’assedio di Gaeta ed in seguito cedute al governo pontificio.[15]

Le fabbriche militari[modifica | modifica wikitesto]

Nel regno, oltre ai vari opifici privati deputati alla produzione delle uniformi e degli altri effetti dell’equipaggiamento dei soldati, erano attivi diversi opifici militari di proprietà statale. La stessa Direzione dei Corpi Facoltativi si occupava specificamente delle manifatture di artiglieria, suddividendosi a sua volta in cinque “Direzioni degli stabilimenti”, ossia:

  • Arsenale di Costruzione
  • Fonderia di ferro e bronzo
  • Fabbrica d’Armi
  • Montatura d’Armi
  • Miniere

Acciarino di un fucile prodotto dalla Manifattura Reale di Mongiana

Ogni Direzione degli Stabilimenti era controllata da un tenente colonnello direttore, che aveva alle proprie dipendenze degli ufficiali distaccati dalle compagnie del Battaglione Artefici. Vi erano inoltre 9 “Direzioni Locali dei Materiali”: Napoli, Capua, Gaeta, Pescara, Barletta, Reggio Calabria, Palermo, Messina e Siracusa.[15]

Il progetto di ampliamento della Reale Fabbrica d’Armi di Torre Annunziata

Decreto del 1857 riguardante il Polverificio di Scafati

La Fabbrica d’Armi di Torre Annunziata (costruita nel 1758) produceva le singole parti delle armi, con l’ausilio di due succursali: l’Officina diLancusi (Salerno, specializzata nella produzione di acciarini) e quella di Poggioreale (Napoli, costruita nel 1790). I componenti poi venivano assemblati nella Montatura d’Armi di Napoli(risalente anch’essa al 1758), che arrivava a produrre 11.000 armi da fuoco e 3.000 armi bianche all’anno.[15]
Il Real Stabilimento di Mongiana, preceduto dagli stabilimenti di Stilo (risalenti al 1727), fondato nel 1771 e potenziato nel 1791 (dal brigadiere Pommereul) e nel 1850 (quando vi fu annessa anche una Fabbrica d’armi ed una più modernaFonderia), era lo stabilimento dal quale proveniva quasi tutto il ferro e l’acciaio lavorato dalle industrie di stato. Questa caratteristica rendeva il Regno delle Due Sicilie quasi autonomo dalle importazioni, limitandosi per lo più ad acquistare ferro dell’Isola d’Elba, giudicato il più adatto per la costruzione delle artiglierie. Lo stabilimento di Mongiana si trovava nella provincia di Calabria Ulteriore e sfruttava i minerali di Pazzano, Stilo e Bivongi che davano generalmente prodotti di buona qualità. L’opificio di Mongiana era diretto da un tenente colonnello d’Artiglieria, assistito da un Consiglio di Amministrazione di ufficiali della stessa arma (stanziati aFerdinandea).[15]

L’Arsenale di Napoli (situato a Castel Nuovo e costruito nel 1793) si occupava della costruzione di affusti, carriaggi, macchine di artiglieria e materiali da ponte. In quest’ultima attività era stato messo a punto un parco di ponti di concezione innovativa che con sole 60 barche di modello particolare consentiva l’attraversamento del Po in qualsiasi punto. Altri Arsenali di dimensioni più ridotte erano situati a Palermo e Messina. A Capua, Gaeta e Taranto erano dislocate Officine di riparazione. A Capua inoltre era presente un opificio pirotecnico.[15]

Sezione diametrale di un cannone-obice Paixhans: cartoccio, tacco e granata

Sempre nel Castel Nuovo di Napoli era situata la Fonderia di Napoli (Fonderia e Barena de’ Cannoni, fondata nel 1707), in cui si gettavano le bocche di bronzo. A partire dal 1835 la fonderia fu soggetta ad una serie ininterrotta di ampliamenti ed ammodernamenti riguardanti sia le linee di fusione che i macchinari per la costruzione e la finitura dei cannoni: in quell’anno furono introdotti i forni alla Wilkinson ed i primi macchinari a vapore, nel 1841 furono adottati i forni a riverbero per la costruzione dei cannoni in ferro. Annessi alla Fonderia si trovavano i gabinetti chimico, fisico e mineralogico, oltre che la Biblioteca tecnica del Corpo Reale di Artiglieria.[15]

L’Opificio Meccanico di Pietrarsa iniziò la sua attività nel 1841. Anche se originariamente deputato alla costruzione di materiale ferroviario, esso fu sfruttato anche per la costruzione di materiale militare. Per l’Esercito vi si costruivano attrezzature per ponti, cantieri ed arsenali e altre macchine da guerra. L’Opificio di Pietrarsa comprendeva una fonderia per proiettili dotata di forni a riverbero, forni alla Wilkinson e magli a vapore a stampaggio.[15]

Provvedeva agli esplodenti la Real Fabbrica di polveri di Torre Annunziata, che vantava una tradizione plurisecolare (fu fondata nel 1652). Nel 1854 la produzione delle polveri fu trasferita nel più moderno e sicuro polverificio di Scafati, che adottava inoltre i nuovi metodi di produzione usati in quegli anni in Inghilterra, Stati Uniti e Germania. Le polveri confezionate erano successivamente immagazzinate della Polveriera Centrale di Baia, dove erano oggetto di periodiche verifiche da parte di una commissione di artiglieria. Altre polveriere erano situate a Napoli, Capri, Capua, Gaeta, Palermo, Messina e Siracusa. In Sicilia la produzione delle polveri avveniva in stabilimenti privati, il più noto dei quali era quello dei Rammacca.[15]

Galleria immagini[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ M. Fiorentino, G. Boeri, L’Esercito delle Due Sicilie (1856-1859), Rivista Militare (quaderno n.5/87)
  2. ^ Mariano d’Ayala, Napoli Militare, pp. 3-10
  3. ^ Francesco Storti, L’esercito napoletano nella seconda metà del Quattrocento, Laveglia & Carlone Editore
  4. ^ Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Parte Seconda, pag. 98-104, Laterza Editore, Bari 1972
  5. ^ a b L’Esercito delle Due Sicilie (1856-1859), Quaderno n. 5/87, Rivista Militare
  6. ^ a b Antonio Ulloa, Fatti di guerra de’ soldati napoletani, Napoli 1852
  7. ^ Il primogenito di Carlo di Borbone, Filippo, era demente; il secondogenito, anch’egli di nome Carlo, diventava erede del trono spagnolo.
  8. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  9. ^ Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, Atlante geografico del Regno di Napoli, con la collaborazione dell’Istituto Geografico Militare Italiano di Firenze, a cura della Biblioteca Nazionale di Cosenza e del Laboratorio di Cartografia Storica dell’Università della Calabria, Soveria Mannelli: Rubbettino, 1993.
  10. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  11. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  12. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  13. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  14. ^ a b Alfredo Scirocco, «FERDINANDO II di Borbone, re delle Due Sicilie». In : Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. XLVI, Roma : Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996 (on-line)
  15. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z aa ab ac ad aeaf ag ah ai aj ak al am an ao ap aq ar as at au av aw ax ay Rivista Militare, L’Esercito delle Due Sicilie (1856-1859), Quaderno n. 5/87
  16. ^ Fiorentino-Boeri, “L’Esercito Napoletano nel 1832”, ESI
  17. ^ Raffaele De Cesare, La fine di un Regno, volume I
  18. ^ Pietro Calà Ulloa, Lettres napolitaines, par P.-C. Ulloa, Parigi : H. Goemaere, 1864
  19. ^ Silvio De Majo, Breve storia del Regno di Napoli, da Carlo di Borbone all’Unita d’Italia (1734-1860). Roma : Tascabili economici Newton, 1996, pp. 60-64.
  20. ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie 1847-1861, Vol. 2, Brindisi, Edizioni Trabant, 2009, p. 73 ISBN 978-88-96576-10-6.
  21. ^ Antonella Grignola, Paolo Coccoli, Garibaldi: una vita per la libertà, Firenze, Giunti editore, 2004, p. 51, ISBN 88-440-2848-4.
  22. ^ Raffaele De Cesare, La fine di un Regno, vol. II
  23. ^ Giuseppe Galasso, L’esercito di Franceschiello : una storia di onori e calunnie, Corriere della Sera, 27 febbraio 2010, p. 17 (on-line)
  24. ^ Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Edizioni Trabant 2009
  25. ^ Giuseppe Galasso, “L’esercito di Franceschiello una storia di onori e calunnie”, dal Corriere della Sera del 27 febbraio 2010, pag. 17
  26. ^ a b c d Rivista Militare, L’Esercito delle Due Sicilie (1856-1859), Quaderno n.5/87
  27. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  28. ^ Carlo Afan de Rivera, Tavole di riduzione dei pesi e delle misure delle Due Sicilie, Napoli: Stamperia e cartiere del Fibreno, 1840, p. 357
  29. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  30. ^ M. d’Ayala, Napoli militare, cit., pp. 47 e segg.
  31. ^ Fiorentino-Boeri, “L’Esercito Napoletano nel 1832”, ESI, pag. 24
  32. ^ Il Reale Esercito del Regno delle Due Sicilie da duesicilie.org, 26 luglio 2009
  33. ^ a b c Carlo Montù, Storia dell’Artiglieria Italiana, parte II, pagg. 1895-1992, Roma 1934-38
  34. ^ Antonio Zezon, Tipi Militari dei differenti Corpi che compongono il Reale Esercito e l’Armata di Mare di S.M. il Re del Regno delle Due Sicilie, II sezione, Napoli 1850
  35. ^ a b Rivista Militare, L’Esercito delle Due Sicilie 1856/1859, Quaderno n.5/87
  36. ^ a b c d e f g Carlo Mezzacapo, Stato militare dell’Italia, Rivista Militare, Anno I, Volume I, Torino 1856
  37. ^ Fiorentino-Boeri, “L’Esercito Napoletano nel 1832”, ESI
  38. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  39. ^ S. Goeldlin, Schweizer Regimenter im Dienste des Konigs von Neapel und Beider Sizilien, Napoli, 1850
  40. ^ Rivista Militare, L’Esercito delle Due Sicilie (1856-1859), Quaderno n. 5/87, pag. 36
  41. ^ R. De Cesare, La fine di un Regno, Volume II
  42. ^ a b c d e f Henri Ganter, Histoire du service militaire des Regiments Suisses à la solde de l’Angleterre, de Naples et de Rome, Ginevra 1901
  43. ^ Fiorentino-Boeri, L’Esercito Napoletano nel 1832, ESI
  44. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008
  45. ^ Ilari – Crociani – Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche Tomo I, Stato Maggiore Esercito, Roma 2008

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Nicola Forte, “Viaggio nella memoria persa del regno delle Due Sicilie” -Imagaenaria-2007
  • Luigi Blanch, «Idea di una storia delle milizie delle Due Sicilie da Carlo III al regnante Ferdinando II», in Antologia militare, V, 1839, N. 9, pp. 49–135.
  • Carlo Corsi, Difesa dei Soldati Napolitani, 1860, Salerno, Palladio, 2009.
  • Mariano d’Ayala, Napoli militare, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1847. ISBN non esistente
  • Mariano d’Ayala, Le vite de’ più celebri capitani e soldati napoletani dalla giornata di Bitonto fino a’ dì nostri, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1843. ISBN non esistente
  • Mariano d’Ayala, Memorie storico-militari dal 1734 al 1815, Napoli, presso F. Fernandes, 1837. ID., Napoli Militare, Napoli, 1847.
  • Antonio Ulloa, (cur.), Antologia Militare, collezione di pubblicazioni militari e storiche, Napoli, Puzziello, 1835-1844.
  • Antonio Ulloa, Fatti di guerra dei soldati napoletani, Napoli, Tip. Militare, 1852.
  • Guglielmo Pepe, Sull’esercito delle Due Sicilie e sulla guerra italica di sollevazione. Parigi, Lacombe, 1840
  • Ruoli de’ generali ed uffiziali attivi e sedentanei di tutte le armi del Regno delle Due Sicilie. Napoli, 1857
  • Giuseppe Ferrarelli, Memorie militari del Mezzogiorno d’Italia, con prefazione di Benedetto Croce, Bari, 1911.
  • Piero Pieri, Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, Napoli, 1927, pp. 101–106.
  • Tito Battaglini, Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie, Modena, 1938, 2 voll.
  • Tito Battaglini, L’organizzazione militare del Regno delle Due Sicilie: da Carlo III all’impresa garibaldina. Modena: Società tipografica modenese, 1940.
  • Tommaso Argiolas, Storia dell’esercito borbonico, Napoli, ESI, 1970.
  • Guido Landi, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie, Milano, Giuffrè, 1977, 2 voll. (I, pp. 469–487).
  • Roberto Maria Selvaggi, Nomi e volti di un esercito dimenticato. Ufficiali dell’esercito napoletano del 1860-61, Napoli, Grimaldi & C., 1990.
  • Giancarlo Boeri e Piero Crociani, L’Esercito Borbonico dal 1789 al 1861, Roma, USSME, 4 vol., 1989-1998.
  • Salvatore Abita (cur.), Le armi al tempo dei Borbone, Napoli, E. S. I., 1999.
  • Virgilio Ilari, Piero Crociani e Ciro Paoletti, Storia militare dell’Italia giacobina (1796-1801), Roma, USSME, 2000, II (“La guerra Peninsulare”: «Il nuovo esercito napoletano, 1799-1802», pp. 1131–1153; «I francesi sulle coste italiane, 1800-02», pp. 1155–1173).
  • Virgilio Ilari, Piero Crociani e Giancarlo Boeri, Storia militare del Regno Murattiano (1806-1815), Invorio, Widerholdt Frères, 2007, 3 vol.
  • Virgilio Ilari, Piero Crociani e Giancarlo Boeri,Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche (1800-1816), Roma, USSME, 2008, II, pp. 879–942.
  • Donatella Bernabò Silorata, «Note di letteratura militare nel Regno delle Due Sicilie», in Salvatore Abita (cur.), Le armi al tempo dei Borbone’, Napoli, E. S. I., 1999, pp 85–88.
  • Miriam Viglione, Funzioni militari e politica a Napoli tra Sette e Ottocento, tesi di laurea in storia moderna, rel. Anna Maria Rao, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, A. A. 2000/01 (I “Libretti di vita e costumi” dei reggimenti R. Alemagna, R. Abbruzzo e R. Calabresi”).

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Suddivisione Amministrativa del Regno delle Due Sicilie

Suddivisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

1leftarrow.pngVoce principale: Regno delle Due Sicilie.

La suddivisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie dal 1817 era basata su una struttura a 4 livelli.  Le divisioni di primo livello, dette provincie[1], erano 22.  Le 22 province erano suddivise in 76 distretti.

I distretti erano suddivisi in circondari (presenti in numero complessivo di 684). I circondari erano suddivisi in comuni (un totale di 2189 nell’anno 1840).

Provincie[modifica | modifica wikitesto]

Le provincie erano classificate, in base all’importanza, in tre classi[2].

Mappa delle provincie e dei distretti del Regno delle Due Sicilie.

Reali Dominii
al di qua del Faro
Capitale
1 Coat of Arms of the Province of Naples (historical province).svg Napoli Napoli
2 Coat of Arms of Terra di Lavoro.svg Terra di Lavoro Capua,
Caserta dal1818(*)
3 Coat of Arms of Principato Citra.svg Principato Citeriore Salerno
4 Coat of Arms of Principato Ultra.svg Principato Ulteriore Avellino(*)
5 Coat of Arms of Basilicata.svg Basilicata Matera fino al 1806,Potenza dal 1806.
6 Coat of Arms of Capitanata.svg Capitanata Foggia
7 Coat of Arms of Terra di Bari.svg Terra di Bari Bari
8 Coat of Arms of Terra d'Otranto.svg Terra d’Otranto Lecce
9 Coat of Arms of Calabria Citra.svg Calabria Citeriore Cosenza
10 Coat of Arms of Calabria Ultra.svg Calabria Ulteriore II Catanzaro
11 Coat of Arms of Calabria Ultra.svg Calabria Ulteriore I Reggio Calabria
12 Coat of Arms of Contado di Molise.svg Molise Campobasso
13 Coat of Arms of Abruzzo Citra.svg Abruzzo Citeriore Chieti
14 Coat of Arms of Abruzzo Ultra (wings inverted).svg Abruzzo Ulteriore II Aquila
15 Coat of Arms of Abruzzo Ultra I (last version).svg Abruzzo Ulteriore I Teramo
Reali Dominii
al di là del Faro
Capitale
16 Arms of the Aragonese Kings of Sicily(Crowned).svg Palermo Palermo
17 Arms of the Aragonese Kings of Sicily(Crowned).svg Messina Messina
18 Arms of the Aragonese Kings of Sicily(Crowned).svg Catania Catania
19 Arms of the Aragonese Kings of Sicily(Crowned).svg Girgenti Girgenti
20 Arms of the Aragonese Kings of Sicily(Crowned).svg Noto Noto
21 Arms of the Aragonese Kings of Sicily(Crowned).svg Trapani Trapani
22 Arms of the Aragonese Kings of Sicily(Crowned).svg Caltanissetta Caltanissetta

* Benevento e Pontecorvo erano delle enclave dello Stato Pontificio.

Distretti[modifica | modifica wikitesto]

Distretti dei Reali Dominii
al di qua del Faro
Provincia
1 Napoli, Casoria, Castellammare,Pozzuoli Napoli
2 Caserta, Nola, Gaeta, Sora,Piedimonte d’Alife Terra di Lavoro
3 Salerno, Sala, Campagna, Vallo Principato Citeriore
4 Avellino, Ariano, Sant’Angelo dei Lombardi Principato Ulteriore
5 Potenza, Matera, Melfi, Lagonegro Basilicata
6 Foggia, San Severo, Bovino Capitanata
7 Bari, Barletta, Altamura Terra di Bari
8 Lecce, Taranto, Gallipoli, Brindisi Terra d’Otranto
9 Cosenza, Castrovillari, Rossano, Paola Calabria Citeriore
10 Catanzaro, Monteleone, Nicastro,Cotrone Calabria Ulteriore I
11 Reggio, Gerace, Palmi Calabria Ulteriore II
12 Campobasso, Isernia, Larino Molise
13 Chieti, Lanciano, Vasto Abruzzo Citeriore
14 Aquila, Cittaducale, Sulmona,Avezzano Abruzzo Ulteriore II
15 Teramo, Penne Abruzzo Ulteriore I
Distretti dei Reali Dominii
al di là del Faro
Provincia
16 Palermo, Termini, Cefalù,Corleone Palermo
17 Messina, Castroreale, Patti,Mistretta Messina
18 Catania, Caltagirone, Nicosia,Acireale Catania
19 Girgenti, Bivona, Sciacca Girgenti
20 Noto, Siracusa, Modica Noto
21 Trapani, Mazara, Alcamo Trapani
22 Caltanissetta, Piazza,Terranova Caltanissetta

Circondari[modifica | modifica wikitesto]

I circondari del Regno delle Due Sicilie costituivano il terzo livello amministrativo dello stato, collocandosi in posizione intermedia tra il distretto e il comune. La circoscrizione, infatti, delimitava un ambito territoriale che abbracciava, generalmente, uno o più comuni, tra i quali veniva individuato un capoluogo. Facevano eccezione, però, le grandi città: queste, vista la vastità del territorio, erano frazionate in due o più circondari, che includevano uno o più quartieri[3].

Le funzioni del circondario riguardavano esclusivamente l’amministrazione della giustizia: tali funzioni giudiziarie erano affidate al Giudice di Circondario. Questo magistrato, che risiedeva nel comune capoluogo di circondario, era eletto dal sovrano e aveva competenza in materia civile e penale. Inoltre, dove erano assenti i commissariati di polizia, al Giudice di Circondario era affidata anche la polizia ordinaria e giudiziaria[3].

Province dei Reali Dominii
al di qua del Faro
Numero di
Circondari
1 Napoli 43
2 Terra di Lavoro 49
3 Principato Citeriore 45
4 Principato Ulteriore 34
5 Basilicata 42
6 Capitanata 30
7 Terra di Bari 37
8 Terra d’Otranto 45
9 Calabria Citeriore 43
10 Calabria Ulteriore I 22
11 Calabria Ulteriore II 37
12 Molise 33
13 Abruzzo Citra 25
14 Abruzzo Ultra II 31
15 Abruzzo Ultra I 17
Province dei Reali Dominii
al di là del Faro
Numero di
Circondari
16 Palermo 34
17 Messina 27
18 Catania 27
19 Girgenti 17
20 Noto 17
21 Trapani 13
22 Caltanissetta 16

Centri abitati[modifica | modifica wikitesto]

I centri abitati, in base ai dati del Dizionario Statistico del regno, nel 1840 erano 3.333.

Di questi paesi erano riconosciuti come comuni soltanto 2.189 mentre la restante parte erano identificati come villaggi,borghi, subborghi, casali (Provincia di Napoli, Principato Citeriore), rioni (Calabria Citeriore) o ville (Abruzzo) appartenenti a comuni limitrofi[4].

Organi amministrativi[modifica | modifica wikitesto]

A capo di ogni provincia vi era un intendente, coadiuvato dalla Segreteria d’Intendenza e dal Consiglio d’Intendenza; ilConsiglio provinciale, composto da 15 membri annuali proposti dai comuni della provincia e nominati dal sovrano, era un organo deliberativo ed aveva un proprio bilancio[5]. A capo di ogni capoluogo di distretto che non era sede di intendenza, invece, vi era un sottintendente, cioè la prima autorità del distretto, mentre altri organi amministrativi erano la segreteria di sottintendenza ed il Consiglio Distrettuale, composto da 11 consiglieri[6].

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Reali Dominii al di qua del Faro[modifica | modifica wikitesto]

Giuseppe Bonaparte, con la legge n. 132 dell’8 agosto 1806 sulla divisione ed amministrazione delle provincie del Regno[7], riformò la ripartizione territoriale dello Stato sulla base del modello francese[8]. Negli anni successivi (tra il 1806 e il 1811), una serie di decreti, tra i quali il n. 922 del 4 maggio 1811, per la nuova circoscrizione delle quattordici provincie del Regno di Napoli[9].

Reali Dominii al di là del Faro[modifica | modifica wikitesto]

Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Regno di Sicilia (1734-1816) § Suddivisione amministrativa.

In Sicilia, sin dalla prima stesura della Costituzione del 1812, erano in vigore i distretti che consistevano nelle circoscrizioni territoriali di 21 città demaniali cui vennero aggiunti i territori di Bivona e di Caltanissetta, entrambe fino ad allora feudali. Fino al 1817, non ci furono grosse modifiche e l’unificazione dei due regni previde, anche per la Sicilia, l’istituzione delleprovince (il numero delle province “isolane” fu fissato in sette), riportando i distretti al di sotto di esse.

Nel 1819, i distretti vennero, quindi, suddivisi in entità minori, i circondari. Il Regio Decreto del 30 maggio 1819, infatti, previde la suddivisione dei distretti in diversi “circondari”, che presero nome dai rispettivi capoluoghi[10].

Negli anni venti dell’Ottocento, in seguito ad una grave crisi finanziaria che colpì la società isolana, il governo fu indotto a modificare l’assetto amministrativo dell’isola[11]: inizialmente fu prevista la riduzione delle province da 7 a 4 e l’abolizione di alcune sottintendenze[11]. Il Regio Decreto dell’8 marzo 1825, tuttavia, mantenne la suddivisione della Sicilia in 7 province, ma abolì tutte le sottintendenze. Ciononostante, il ridimensionamento dell’apparato amministrativo e rappresentativo del distretto fu uno dei motivi che causarono numerose rivolte in tutta l’isola, in particolar modo nel 1837[11]. In seguito a questi episodi, il governo provvide a modificare nuovamente gli apparati amministrativi distrettuali: vennero reintrodotte le sottintendenze, i Consigli Distrettuali e gli Ispettorati distrettuali di polizia; furono abolite, però, le Compagnie d’Armi, sostituite da distaccamenti distrettuali della Regia Cavalleria[12].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ È ammessa la scrittura provincie anziché province nei contesti storici dell’antichità in deroga alla grammatica italiana corrente. Provincia su Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011. URL consultato il 17 giugno 2014.
    «Nell’uso antico, genericamente, regione, nazione: Ahi serva Italia, di dolore ostello, … Non donna di provincie, ma bordello! (Dante).».
  2. ^ Attilio Zuccagni-Orlandini (1844), p. 744
  3. ^ a b Achille Moltedo, p. x
  4. ^ Gabriello De Sanctis (1840), p. xxix
  5. ^ Antonino Marrone, p. 16
  6. ^ AntoninoMarrone, pag. 17
  7. ^ Bullettino delle leggi del 1806, p. 269
  8. ^ Laura Annalisa Lucchi
  9. ^ Bullettino delle leggi del 1811, pp. 193-260
  10. ^ Antonino Marrone, p. 18.
  11. ^ a b c AntoninoMarrone, p. 20
  12. ^ Antonino Marrone, p. 21

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Danneggiati Politici

Ministero dell’interno. Divisione prima. Archivio generale. Danneggiati politici delle provincie napoletane e siciliane.

Pandetta alfabetica dei Danneggiati Politici 1861-1865.

Raccolta dei Danneggiati Politici

G. U. del Regno d’Italia n. 77 del 31 Marzo 1862 – Per l’ eseguimento del R.  Decreto 7 gennaio 1861,  N. 4578, Sua Maestá in udienza del di 16 marzo 1862 ha conceduto i seguenti annui assegni a danneggiati per cause politiche nelle Provincie Napolitane  sotto il soppresso Governo borbonico.

G. U. del Regno d’Italia n.   87  del  11 Aprile             1862 –    Idem

G. U. del Regno d’Italia n. 100  del  26  Aprile           1862 –    Idem

G. U. del Regno d’Italia n. 131  del  03 Giugno         1862 –    Idem

G. U. del Regno d’Italia n. 159   del  07 Luglio           1862 –    Idem

G. U. del Regno d’Italia n. 180   del  31 Luglio           1862 –    Idem

G. U. del Regno d’Italia n. 207  del  01  Settembre 1862 –   Idem

G. U. del Regno d’Italia n. 278  del  24   Novembre 1862 –   Idem

G. U. del Regno d’Italia n. 306  del  27  Dicembre   1862 –   Idem

G. U. del Regno  d’Italia supplemento al n. 39           1863 –   Idem  per causa di libertà  – 14 Febbraio 1863 –

G. U. del Regno d’Italia  n.  49  del   26   Febbraio    1863      idem  per causa di libertà.

G. U. del Regno d’Italia supplemento al n.116          1863      Idem  per causa di libertà – 16  Maggio     1863 –

G. U. del Regno d’Italia supplemento al n.138          1863      Idem  per causa di libertà – 12  Giugno     1863 –

G. U. del Regno d’Italia supplemento al n.154          1863      Idem  per causa di libertà –  1  Luglio     1863 –

G. U. del Regno d’Italia n. 231  del  30  Settembre  1863 –   Idem  per causa di libertà –

Gazzette Ufficiali del Regno d’Italia

Au.G.U.Sto. – Automazione Gazzetta Ufficiale Storica

G. U. del Regno d’Italia n. 251 del 22 Ottobre 1860 – Notizie sul combattimento del Macerone (Isernia)

G. U. del Regno d’Italia n.68 del 18 Marzo 1861 – Il Re Vittorio Emanuele II° assume per se e suoi successori il titolo di Re d’Italia.

G. U. del Regno d’Italia n. 197 del 13 Agosto 1861 – Elenco delle ricompense accordate da S.M. per la Campagna di Guerra della Bassa Italia 1860-1861 .

G. U. del Regno d’Italia n. 198 del 14 Agosto 1861 – Elenco delle ricompense accordate da S.M. per la Campagna di Guerra della Bassa Italia 1860-1861 .

G. U. del Regno d’Italia n. 206 del 23.08.1861 – Elenco delle ricompense accordate da S.M. per la Campagna di Guerra della Bassa Italia 1860-1861 . ( pel combattimento del  Macerone  20 Ottobre 1860.)

G. U. del Regno d’Italia n. 215 del 3 Settembre 1861-Elenco delle ricompense accordate da S.M. per la Campagna di Guerra della Bassa Italia 1860-1861 .

 G. U. del Regno d’Italia n. 218 del 6 Settembre 1861 – Ricompense per la campagna dell’Italia Meridionale 1860 accordate agli Ufficiali e Bassa Forza dei Corpi di Volontari comandati dal GENERALE GARIBALDI.

G. U. del Regno d’Italia n. 220 del 9 Settembre 1861 – Ricompense per la campagna dell’Italia Meridionale 1860 accordate agli Ufficiali e Bassa Forza dei Corpi di Volontari comandati dal GENERALE GARIBALDI.

G. U. del Regno d’Italia n.235 del 26 Settembre1861 – Ricompense per la campagna dell’Italia Meridionale 1860 accordate agli Ufficiali e Bassa Forza dei Corpi di Volontari comandati dal GENERALE GARIBALDI.

G. U. del Regno d’Italia n.  11  del  13  Gennaio   1862 – Ricompense per la campagna dell’Italia Meridionale 1860 accordate agli Ufficiali e Bassa Forza dei Corpi di Volontari comandati dal GENERALE GARIBALDI.

G. U. del Regno  d’Italia n.  12  del  14  Gennaio  1862 – Ricompense per la  campagna  dell’Italia   Meridionale  1860  accordate  agli  Ufficiali   e Bassa  Forza   dei  Corpi  di  Volontari  comandati  dal  GENERALE GARIBALDI.

G. U. del Regno d’Italia supplemento 8 Settembre 1862 – rapporti originali sugli ultimi fatti avvenuti nelle Provincie Meridionali.

G.  U.  del Regno  d’Italia  n.  46  del  23  Febbraio    1863 –    Cambio denominazione Comuni. 

G. U. del Regno d’Italia n. 95 del 21 Aprile 1863 Elenco suppletivo di ricompense ai militari ed impiegati dei già Corpi dei Volontari, che si distinsero nella campagna dell’Italia meridionale nel 1860.

G. U. del Regno d’Italia suppl. al n. 69 del 24 Marzo 1863 –   Cambio denominazione Comuni.

G.  U.  del Regno d’Italia    n. 98   del  24 Aprile            1863 –    Cambio denominazione Comuni.

G.  U.  del Regno  d’Italia  n.  99   del  25   Aprile          1863 –    Cambio denominazione Comuni. 

G.  U. del Regno d’Italia   n. 100   del 27   Aprile          1863 –    Cambio denominazione Comuni.

G.  U.  del Regno  d’Italia  n. 113  del  12   Maggio       1863 –   Cambio denominazione Comuni. 

G.  U. del Regno d’Italia   n. 116   del 16   Maggio        1863 –   Cambio denominazione Comuni.

G.  U. del Regno d’Italia  suppl. al  n.128 del 30 Maggio 1863-Cambio denominazione Comuni.

G.  U. del Regno d’Italia suppl. al n. 133 del 16 Giugno 1863-Cambio denominazione Comuni.

G.  U.  del Regno  d’Italia  n. 211  del   5 Settembre       1863 –  Cambio denominazione Comuni. 

G.  U. del Regno d’Italia suppl. al n. 216 del 16 Settembre 1863- Cambio denominazione Comuni.

IL RISORGIMENTO ATTRAVERSO I GIORNALI MOLISANI DELL’EPOCA 1860

ANNO 1.   Campobasso 20 Ottobre 1860  N. 1.

                              I L   S A N N I T A   PDF

GIORNALE DELLA PROVINCIA DI MOLISE

I  REDATTORI  DEL  SANNITA  AI  MOLISANI

Dopo il Decreto del 1° luglio 1860 col quale si richiamava in vigore nelle due Sicilie la costituzione del 1848 molti manifestarono il desiderio di veder rinato il giornale il Sannita che fu pubblicato da noi per soli sei mesi nel 1848. La espressione di tali premure era certamente una lusinghiera promessa d’incoraggiamento non solo, ma anche un atto di plauso che dopo dodici anni si faceva alla istituzione di un giornale patrio, epperò avrebbesi dovuto senza indugio porre mano alla pubblicazione di esso. Ma pensando che la costituzione del 1848 fu richiamata   in vigore da un Borbone, non già per migliorare le nostre condizioni politiche, ma come estremo tentativo per salvare un trono che cigolava sotto il peso di mille colpe, e di mille errori politici; pensando che ai Borboni era costume di punire nella reazione chiunque avesse avuta la buona fede di credere alle concessioni da essi fatte nei momenti di commozioni politiche, fu stimato di non essere ancora giunto il tempo opportuno per la pubblicazione del Sannita. Difatti ( mettendo da parte gli spergiuri e le violazioni di Ferdinando 1° nel 1799, 1815, 1821 ) basterà qui rammentare come Ferdinando 2.° che con lo statuto costituzionale del 1848 aveva dichiarata la libertà della stampa, nel 1849 sottoponeva a persecuzioni, ad oltraggi, a processi, tutti coloro che si erano avvaluti di tale diritto; ed il Sannita anch’ esso fu sottoposto a processo, ed i suoi redattori patirono tutte le avversità, le ingiustizie, le oppressioni che la rabbia feroce di una vendetta tirannica e codarda elevò a sistema politico di governo dal 1849 al 25 giugno 1860. Nè il Secondo Francesco si mostrò di miglior fede del padre, giacché dopo di avere col Decreto del 16 giugno 1859 abolite le liste degli attendibili, e fatta indulgenza ai reati politici commessi nel 1848 e 1849, immediatamente dopo, ai 22 giugno 1859 faceva diramare in tutto il Regno una Ministeriale disdicendo il Decreto, ed inculcando invece una più severa sorveglianza agli attendibili, ed una più energica repressione di qualunque siasi  apparenza od aspirazione liberale (a). Ora che le nostre condizioni politiche sono del tutto mutate, nella rigenerazione nazionale d’ Italia sotto lo scettro di Re Vittorio Emmanuele, il Sannita risorge anch’ esso per propugnare il principio della unità ed indipendenza ltaliana sotto il governo di un Re galantuomo; per rappresentare al detto Governo i bisogni economici e sociali della Provincia; per fecondare nel cuore dei Molisani il germe di ogni virtù cittadina, col ricordo delle virtù degli avi, e con la lode alle generose azioni dei benemeriti contemporanei. Questo è lo scopo rhe si propone il Sannita, e speriamo che quanti uomini dotti e liberali sono in Molise, tutti vogliano concorrere anch’ essi con la loro opera a far sì che la istituzione di questo giornale sia stabilmente assicurata non solo, ma che esso riesca degno di una provincia, la quale ha avuto sempre fama di culta tra le altre dello stato napoletano. E perchè ciascuno possa utilmente prestare la sua opera in modo uniforme alle norme stabilite per la compilazione del giornale, cenniamo il metodo di redazione che si è creduto adottare, protestando sin da ora che tale metodo sarà sempre rigorosamente seguito onde il Sannita non abbia a divergere dallo scopo della sua istituzione. La compilazione del Giornale quindi sarà sistematicamente disposta nelle seguenti rubriche:

 1° ATTI DEL GOVERNO. In questa rubrica saranno riprodotti tutti gli atti del governo che riguardano particolarmente la provincia di Molise, nonchè gli atti governativi emessi dalle autorità provinciali; e gli Ordini del Giorno della Guardia Nazionale della Provincia.

2° NOTIZIE DELLA PROVINCIA. Sotto tale rubrica saranno riportate le notizie di tutto ciò che accade di notabile in ciascun comune della provincia. E perchè la libertà della stampa potesse, col sindacato della pubblica opinione, contribuire in alcun modo al miglioramento delle amminist. comunali, pubblicheremo gli stati discussi di ciascun comune.

3° ARTICOLI DI REDAZIONE, che volgarmente diconsi di fondo. In questa terza rubrica saranno compresi gli articoli originali dei redattori del giornale, contenenti la censura degli atti del governo, la espressione dei bisogni, e delle condizioni della Provincia, e tutto ciò che potrà reputarsi utile per l’indirizzo morale e politico dello spirito pubblico della medesima.

4° ARTICOLI COMMUNICATI , o riprodotti.  Apriamo questa rubrica per tutti gli articoli, non compilati dai redattori del giornale, e che si credessero meritevoli di pubblicazione, o dì maggior diffusione nella Provincia. Sotto questa stessa rubrica riprodurremo, di quanto in quando la descrizione dei Comuni della Provincia e la biografia degli uomini illustri e benemeriti nati in  Molise

5° AVVISI GIUDIZIARI, AMMINISTRATIVI, e COMMERCIALI.  Quest’ ultima rubrica finalmente annunzierà tutte le vendite giudiziarie, gli appalti delle opere pubbliche provinciali, e comunali, il prezzo dei cereali e dei comestibili, non che tutte le speculazioni private commerciali, o industriali che hanno luogo nell’ intera provincia.

Il Sannita n. 2 – 15 novembre 1860  PDF

Il Sannita n. 3 – 30 novembre 1860  PDF

Il Sannita n. 4 – 30 dicembre 1860  PDF

Rimembranze Storiche di Alfonso Perrella

AlfonsoPerrella

Rimembranze Storiche Cinquanta anni fa nel Molise

di Alfonso Perrella

tratto da “ La Provincia di Campobasso anno XV n. 2 del 16 Gennaio 1911 pagg.  1-2 “

Un idillio svoltosi in Campobasso nel 1860 fra una gentile signorina ed un valoroso Capitano Garibaldino.

I

Ora che tutti ricordano i fatti del 1860, ne voglio raccontare anche io’ specialmente uno amoroso, assai gentile, quasi ancora olezzante di patriottismo. La giovinetta non contava ancora 20 anni: bella, intelligente, virtuosa oltre modo, appartenente a distinta famiglia, dimostratasi sempre di liberali sentimenti. Il nonno suo, Napoletano, era a stento scampato dal massacro delle truppe a massa del Cardinale Ruffo, entrato nella Capitale il 13 giugno 1799. Da Piedimonte di Alife, attraversato il Matese, sostò a Boiano presso alcuni amici, come a sicura stanza. Qualche tempo dopo, presa moglie, andò a stabilirsi in Campobasso; ove aprì un importante studio di Avvocato, che l’unico figliuol suo fece poi maggiormente rifulgere per dottrina ed onestà

II

L’anno 1860 si appressava a grandi passi; la rivoluzione incominciava a serpeggiare nelle Provincie Napoletane e già il terribile nome di Garibaldi andava per le bocche di tutti. Io, non ancora undicenne, mi trovavo nel Convitto Sannitico, ora Mario Pagano, è come tutti gli altri compagni miei, apprendeva ansioso tutte le notizie che, ad ogni momento ci portava il nostro cameriere (il tanto buono Pasquale De Libera); notizie di combattimenti, massacri, incendi, assedi, prese di città, fucilazioni ecc; notizie sempre esagerate dalla popolare fantasia che ne inventava di tutti i colori. Figuratevi che Garibaldi ci si dipingeva come un colosso, un gigante montato su veloce destriero, con una spada lunga vari metri!… Guai a chi gli capitava innanzi!… Mangiava i soldati Borbonici a cento a cento in un boccone, quando non ne aveva di più… e col semplice suo sguardo fulmineo faceva cadere a terra intieri reggimenti!!! (Brr… per la paura sto tremando ancora!!!)

III

Le notizie incalzavano sempre più favorevoli ai Garibaldini. Nuove strepitose vittorie si narravano, che alla nostra fanciullesca fantasia facevano grande impressione. Una mattina entra tutto ansante il cameriere Pasquale, dicendo che i Garibaldini avevano preso Napoli e, scovato, su una soffitta della Regia il povero Franceschiello (il quale non aveva membro che tenesse fermo), ligatolo con una fune, e trascinatolo mezzo morto nella piazza del Mercatello, lo avevano visto, con i loro propri occhi, pendere dal fatale palco attorniato da una decina di Generali Borbonici, anche essi impiccati. Era il tempo dell’entusiasmo liberale, del patriottismo, dell’eroismo, ma anche delle invenzioni, delle menzogne e delle pazzie. La rivoluzione si estendeva, e non tardarono a formarsi Governi provvisori. Anche a Boiano se ne creò uno con tutti i relativi Ministri e col Presidente. Sopra Civita Superiore fu fissato alcun tempo dopo un cannone con la bocca verso la Srada d’Isernia, dalla quale si temeva la venuta dei soldati Borbonici: Era di legno con cerchi di ferro, costruito dall’ingegnoso fabbro ferraio Pasquale Francesco. Venne affidato all’abile Settedita un cannoniere Borbonico rimandato a casa perché in uno scoppio aveva perduto 3 dita di una mano. Nel farsi il colpo di prova anche il cannone Civitese scoppio, senza arrecare altro danno che la paura.

IV

Un’altra mattina entra in camerata tutto ansante il nostro Pasquale e dice: Sapete ? L’Intendente Conte Sabatelli è fuggito stanotte col Segretario Generale Pulcrano, col Rettore del Convitto Palombieri e col prefetto di ordine Monaldi, D. Nicola de Luca è stato nominato governatore della Provincia. Essendo vera la notizia, considerate che baldoria, che cuccagna, che strepito si fece da noi tutti, piccoli e grandi. Fu una vera anarchia. La disciplina che erasi molto rallentata si ruppe del tutto. Lo studio fu abbandonato, le scuole chiuse, perché nessuno più ci andava. Pel nostro vasto Convitto echeggiavano le grida di Viva Garibaldi, Viva Vittorio Emanuele, morte ai Borbonici, grida che si avvicendavano con quelle del popolo. E dire che pochi mesi prima, nello stesso Convitto, erasi commemorato con una pubblica Accademia vocale e strumentale la morte del magnanimo, immortale e paterno Re Ferdinando II, inneggiando alla Dinastia Borbonica. In quelle stesse mura, a così breve distanza, si era cambiato di opposto metro! Oh come è fulminea la volutilità politica, il cambiamento di scena dell’umano sentimento! In quella occasione io sentii il magico violino dell’ottimo e maestoso Prof. Pasquale d’Ovidio, nativo di Triventi, accasato a Campobasso, padre fortunato di 2 illustri viventi Senatori, Enrico e Francesco. Fra gli altri alunni aveva declamato una bella poesia il mio carissimo compagno Giovannino Ionata, poi consigliere Provinciale e Sindaco di Agnone; (chiamato da noi bonariamente: il fanciullo ); poesia dettata dal padre D. Alessandro, la cui simpatica figura tengo presente alla memoria. Ed io anche recitai un piagnucoloso sonetto, non ricordo se con la coda o senza.

V

Garibaldi da Caserta aveva, con una specie di alter ego, dato incarico al valoroso Nicola Campofreda ed ai figli Antonio e Achille (di Portocannone) di sollevare tutta la Provincia di Molise contro la dinastia Borbonica. Perciò il movimento rivoluzionario ebbe ad estendersi in tutti i paesi, tranne ad Isernia guarnita di molta truppa Regia. Per combattere e domare questa erasi mosso il Governatore de Luca ( ben noto a tutti per patriottismo e sofferenze politiche) con molti liberali; ma la spedizione, quantunque condotta con molto ardimento, ebbe, come tutti sanno, un infelice esito, specialmente perché nuove truppe Regie corsero a difendere Isernia. In seguito a tale disastro il patriotico Boianese D. Girolamo Pallotta corse a Caserta, persuadendo Garibaldi a mandare il Colonnello Nullo, il Maggiore Caldesi, i due Capitani Zasio e Mario con 12 guide a cavallo, a capo di una legione di 3000 volontari che si sarebbero trovati riuniti a Boiano, cercando con essi di prendere ed occupare la importante posizione strategica di Isernia.

VI

Nullo, giunto con i suoi a Campobasso, prese subito gli accordi col Governatore de Luca per la nuova spedizione. In quella breve fermata il Capitano Zasio si accese di ardente amore per la nostra fanciulla, e ne venne ricambiato. Fu un idilio esuberante di affetto e di patriottismo, bello e virtuoso. Alberto Mario lo racconta nella Camicia Rossa (Milano 1875, pag 198 e seg.), ma tace il cognome della famiglia alla quale apparteneva la giovanetta, e questa chiama Silvia; ma non era il vero nome. Trasforma ad arte, o forse sbaglia alcuni particolari di parentela. Egli, col suo attraente stile scrive:  «Silvia non era una bellezza incontestabile, e per avventura il piglio energico offendeva le delicate linee della grazia, se pure la sua spontaneità nativa non rendevalo attraente come il fiore della selva: Spigliata ed agile della persona, aveva il passo, la posa, la dignità di una principessa. Balzava il breve ed asciutto piede con eleganza pericolosa e se alcuna rara volta toglievasi i guanti, mostrava una mano lunghetta e rosea, con pozzette ridenti, e con ridenti e rosee ed ovali e tersissime unghie. Aveva bellissimi gli occhi bruni, ai quali le folte ciglia conferivano una espressione complessa di voluttà, di mestizia, d’ingeniutà, di penetrazione. I voluminosi e nitidi capelli neri, pettinati a ritroso e raccolti in un fascio di elaborate trecce, facevano spiccare la fronte di statua greca, ove esultava la giovinezza….. Quel dì il capitano e Silvia, attirati inconsapevolmente l’uno verso l’atra ebbero più fiate occasioni di particolari colloqui: si trovarono vicini a pranzo, soli a passeggio in giardino nell’ora del caffè, e dirimpetto in carrozza. Questa serie di opportunità non fu ordita, nacque da se, e noi, intrattenendoci coi signori X vi abbiamo cooperato. Egli palesassi cavalleresco, appassionato, eloquente. Vago di sintesi, ed educato alla scuola sentimentale degli umanitari, le sue idee pigliavano sembianza pellegrine nella mente di Silvia, e vi si impressero come una ghirlanda di punti luminosi che lìabbagliarono. Forse, udite da altre labbra, ella avrebbele raccolte con più cauta deferenza, ma raccontate dalla giovinezza e protette dal valore, ogni acume di critica divenne ottuso. Silvia apparve ascoltatrice intelligente, interlocutrice vereconda, giudiziosa e arguta. » (pag. 199)

VII

La spedizione Garibaldina contro Isernia si effettuò subito, ma anche essa ebbe un esito infelice, e più della prima. Duecento e più di quelli animosi caddero nel terribile giorno (18 ottobre 1860) fra le Termopili del Sannio, come gli Storici ebbero poi a chiamare le gole e le balze di Pettoranello e di Castelpetroso (i). Nullo, Caldesi, Zasio e Mario, apertasi coraggiosamente la strada fra i nemici ricoverarono a Boiano, e di la a Campobasso.

VII

A Campobasso i due giovani si rividero, ed il loro amore maggiormente avvampò: La povera Silvia, per la patita sconfitta dei Garibaldini era caduta malata: Alberto Mario così continua a scrivere: « In casa dell’ospite X….. a cena spiegando la salvietta, ciascuno di noi vi trovò entro un pugnale di finissimo acciaio con la scritta all’acqua forte: vendetta. Era lavoro di una fabbrica di armi bianche di Campobasso, giustamente famosa nelle Sicilie, ignorata altrove, e dono simbolico di Silvia, presente e malata » pag. 223 Nullo con i suoi tornò a Caserta. I due giovani non si rividero mai più. Nuove enre guerresche e politiche impedirono al Capitano Zasio il ritorno a Campobasso: La giovanetta deperì come fiore svilito dallo stelo: Un male ribelle ad ogni cura la trasse qualche anno dopo al sepolcro, compianta da tutti….. Povera Silvia!….

Cantalupo nel Sannio, gennaio 1911 Alfonso Perrella

(i) il minuto e particolareggiato raccorto delle due spedizioni trovasi nel 2° volume della mia Effemeride Molisano, stampata nel 1890.

Rimembranze Storiche

Cinquanta anni fa nel Molise fra le Termopili del Sannio

L’orribile notte di Castelpetroso di Alfonso Perrella

Tratto da

“ La Provincia di Campobasso Anno XV n. 5 del 15 Marzo 1911 pagg.1-2 “

Il Governatore Nicola de Luca, che aveva occupato Isernia il quattro ottobre, fu costretto subiti a abbandonarla, in furia e fretta, perché all’improvviso, la città era stata circondata da numerosa truppa Borbonica, rinforzata da vari pezzi di cannoni (1). Il Colonnello Nullo, come ho accennato nell’articolo precedente, mandato da Garibaldi per riacquistare quella importante posizione strategica (che era la chiave degli Abruzzi e delle Marche) aveva riuniti circa 2000 volontari a Boiano per marciare verso Isernia. Nullo, con quasi metà della colonna, venne, il giorno 17 ottobre, a Cantalupo, ove pernottò, col Capitano Mario in casa Cascella (2). Il Capitano Zasio e D. Nicola Campofreda con i due figli alloggiarono a casa mia. Io undicenne, tornato dal Collegio Sannitico, per godere le vacanze autunnali, mi aggiravo, tutto lieto e festante, fra quei Garibaldini, i quali percorrevano le vie del paese, cantando patriottici inni, fra i quali ( oltre quello di Garibaldi) ricordo, come se fosse oggi, le parole, la musica e le cadenze del seguente:

Viva l’Italia costituita,

Risorta al giubilo Di nuova vita,

Per mille secoli,

In ogni età,

Viva l’Italia,

La libertà.

Presto abbracciamoci,

Siamo fratelli,

Non più servizii,

Non più ribelli.

Per mille secoli,

In ogni età,

Viva l’Italia,

La libertà.

Bella Partenope,

Madre d’eroi,

Deh più non piangere Pe’ figli tuoi:

Per mille secoli, In ogni età, Viva l’Italia, La libertà.

Così allegramente, cantavano quei baldi e coraggiosi uomini, senza potere menomamente pensare (i poveretti!) quale orribile tempesta stava per scatenarsi, a brevissima distanza, sulle loro spalle fra Pettoranello e Castelpetroso, in quelle rupi e balze, che, poi, gli storici ben appellarono Termopili del Sannio, il cui ricordo metteva i brividi nelle ossa, come scriveva ad Alberto Mario, nella lettera del 22 giugno 1866, Carlo Cattaneo (1).

(1) Pubblicherò, un’altra volta, il Rapporto Ufficiale su questa spedizione, il quale conservo fra i manoscritti della mia libreria. Credo he sia inedito.

(2) La famiglia Cascella, conserva ancora alcuni oggetti, che, quel grande patriota, lascio, muovendo per Isernia contro i Borbonici. Essi sono: una tabacchiera, un porta cerini, una piccola caffettiera ecc.

II

Alberto Mario che ebbe tanta parte a quella spedizione scrive: « Il giorno seguente (18 Ottobre) sul mezzodì, chiamato da Nullo, giunse il resto della colonna da Bojano, e, lasciati 100 uomini guardiani di Cantalupo, si proseguì alla volta d’Isernia. Dopo le due, eccoci all’altezza di Castelpetroso. Troviamo la borgata letteralmente deserta, toltine un vecchio e una ragazzetta che ci contemplavano con atteggiamento d’idioti senza rispondere alle nostre interrogazioni.  Quest’aria di cimitero, osservò il Maggiore (2) non mi piace. Il gabelliere di Pontelandolfo ci parlò di agguati (3). Ei mi sembra il caso Di cotesti abitanti non ne vidi uno al lavori de’ campi. Dove se ne andarono eglino? Il luogo eminente di Castelpetroso è naturalmente forte; io mi arresterei qui per oggi: Qui abbiamo le spalle assicurate: Che ne dici Mario-  — Anch’io, risposi. Non sembra indifferente esplorare la montagna per chiarire la causa di tale derelizione. E giacchè i Piemontesi avanzano dalla via di Sulmona, di qui potrebbesi irrompere di fianco sul nemico accapigliato con essi di fronte. Tale consiglio prudente mi suggeriscono i dubbi di Nullo sulla fermezza de’ nostri soldati. A cui Nullo: occuperemo Pettorano a due miglia da Isernia; vedetelo lassù, sulla punta di quel monte a pan di zucchero. Dobbiamo gittarci sul nemico, anzi che arrivi il rinforzo di Scotti. Se gl’insorti ci minacceranno le spalle, noi sposteremo la nostra base d’operazione da Bojano a Casteldisangro, mutandoci siffattamente in vanguardia de’ Piemontesi. Se irresistibilmente attaccati di fronte, ripareremo con sucurezza su Bojano facendo testa a Castelpetroso.  Però non credo, replico Valdesi, che giovi scendere da un’altezza sicura per risalire un’altra dubbiosa.  L’idea di Nullo è brillante e schiettamente garibaldina, io ripicchiai, ma presuppone l’idea sorella che noi sfondiamo il nemico procedente da Isernia per effettuare la marcia di fianco sulla consolare di Casteldisangro; la quale idea ne presuppone una terza: l’intrepidità dei soldati: Comunque fosse di queste nostre speculazioni e discrepanze strategiche, preponendo la massima abituale dell’andare avanti, si procedette sino all’osteria sulla consolare alle faldi di Pettorano. Ivi attendendo le nostre genti, ristorai di acqua e di biada il mio cavallo, presagendo che in quel dì avrei dovuto contare non poco sul fatto suo. Alle 4 facemmo il nostro ingresso in Pettorano…. Nullo affidò un mezzo Battaglione al capitano Zasio, commettendogli di piantari su Carpinone, arduo monte di prospetto a Pettorano. Collocò il Maggiore all’osteria con 60 uomini di riserva; e a me ordinò di munire, co’ 600 rimanenti, il collo di Pettorano che protende una delle sue pendici a guisa di cuneo orizzontale verso Isernia.

Ciò fatto, spiegiai in catena una mezza compagnia a traverso la gola, anello fra le faldi di Carpinone e di Pettorano. Alle quattro e mezzo principiò la manovra del nemico da Isernia: Un battaglione di Reg, la più parte gendarmi, avanzava sulla consolare e sui campi laterali con mezzo squadrone di cavalleria: alle ali cafoni a torme: Per animare i nostri con una prova segnalata di valore, Nullo mi fece raccogliere le guide ed i soldati di ordinanza. Così in 18 si scese da Pettorano; toccata l’osteria, il Maggire e Mingon si aggiunsero al drappello. Di là al galoppo all’incontro dell’avanguardia borbonica sulla consolare. Quei di Carpinone, testimoni del fatto, ci battevano le mani, e mandavano alte grida d’entusiasmo ripercosse dal monte di Pettorano. Spintici in prossimità deì Regi, li caricammo a briglia sciolta, e li mettemmo in volta disordinati.

— Indietro, indietro! I cafoni al monte I urlarono di repente i nostri di Carpinone. Noi li udimmo, e nondimeno si prosegui l’irruzione: E per verità vivissime e inaspettate scariche ci colsero di fianco dalla pendice avanzata di Pettorano, che io avevo guerrita di 200 uomini. Nullo non sapeva persuadersi come quell’importante posto fosse stato preso senza lotta, e temendo di perdere Pettorano, divisò di rifare il cammino fino alla borgata. Si accese pertando un combattimento strano fra noi cavalieri ed i cafoni, che dietro agli alberi ci bersagliavano diabolicamente a pochi passi. Al sottotenente Bettoni, una palla infranse una gamba e lo condussero alla nostra piccola ambulanza all’osteria. Noi cacciando i cavalli su per l’erta nell’oliveto con rivoltelle e con spade venimmo alle strette co’ cafoni. Intando, scesi in aiuto alquanti da Carpinone, e accorsi quelli che io collocai nella gola, dopo un accanito contrasto ci riesci fatto di ributtare gl’insorti in piena rotta: Nullo mi ordinò di assumere il comando de’ sopraggiunti, dìinseguire i cafoni, di regolarmi secondo le circostanza, e di tornare a ragguagliarlo. Egli e il Maggiore e le guide voltarono il cavallo verso Pettorano.

Messi insieme un 150 soldati, li guidai contro i fuggenti. L’avanguardia regia respinta dalla nostra carica a cavallo, il successivo ritrarsi de’ cafoni e lo affacciarsi del mio corpo persecutore gettarono qualche scompiglio nella colonna nemica, la quale ripiegava sopra Isernia. Tentò essa due volte di fronteggiarmi, ma raccolti in massa l’assaltai alla baionetta, e pervenni di gettarne una parte sulla sinistra e d’impedire il suo ricongiungimento col rimanente che per la consolare si rifugiò in Isernia… Deliberai d’impadronirmi della linea di collinette che limitavano la pianura e sovrastano a Isernia, ove mi collocai…. Era già mezz’ora di sera e nessun ordine mi venne trasmesso dal comandante. Laonde, consegnata ad un capitano la custodia della collina, rifeci la via al quartier generale di Pettorano per riferire il risultato delle mie operazioni, per apprendere i particolari della vittoria su tutta la linea e per ricevere nuove istruzioni. Una sequela di archibusate partite da Pettorano mi fastidiva il ritorno, e deploravo il solito vezzo de’ volontari di tirare ad ogni ala di vento, anche contro ai propri amici. Giunto con qualche difficoltà a traverso i campi, intersecati da fossati e da siepi, sulla consolare, mossi al trotto verso l’osteria discosta circa due miglia. Dopo un miglio m’imbattei in alcune squadre dei nostri carri senza cavalli. Riconosciutici a vicenda, queglino mi dimandarono notizie con voci confuse e paurose, narrando che furono sbaragliati da’ regi e che pel momento favoritali l’oscurità. — Caso parziale, io risposi con accento rassicurante; noi abbiamo battuto completamente il nemico e la giornata è nostra. A tali osservanze stettero paghi e lieti, ed io tirai diritto al passo. Il silenzio diventa di più in più profondo e solenne. Dopo breve tratto, dalla pendice di Pettorano la consolare piega a sinistra, traversa la gola, poi ripiega a destra alle radici di Carpinone. Ivi mi percossero l’orecchio gemiti di moribondi, e la notte stellata consentivami appena di distinguere alcune masse brune sul fondo chiaro della strada. Smontai di sella e riconobbi che gli erano cadaveri e feriti, tragicamente mescolati insieme. Subito m’acquietai ricordando i caduti nel combattimento che sostenemmo per espugnare la pendice. Sperando che qualcuno di quei dolorosi potesse intendermi, li affidai che avrei mandato senza indugio a raccoglierli e medicarli. Veruno pronunciò sillaba, e l’interrotto rantolo dell’agonia fu la sola risposte che mi venne udita. Ma nel procedere sul mesto sentiero, la vista frequente di consimili masse brune funestò i sereni pensieri della vittoria, e mi assicurò che quello fu teatro d’altre e fiere lotte, mentre io all’avanguardia guadagnavo le colline d’Isernia. Quant’ è grave il sonno sugli allori ! dicevo sospirando meco medesimo. Affè di Dio, si direbbe che non ci fosse anima viva! Poveri diavoli, le fatiche della marcia, le ansie della battaglia li affranse…. Con siffatte riflessioni capitai all’osteria. Bruciavo dal desiderio di risapere gli eventi di consolare le fauci riarse con un bicchier di vino e lo stomaco vuoto con qualche vivanda. Entrai, chiamai, picchiai e corsi la casa di dentro e di fuori. Deserto! Né ospiti, né oste, né creatura viva. — Bene, dissi, l’oste se ne sarà ito saviamente, e gli amici sarannosi ristretti a Pettorano. Ma per !!!, nemmeno un picchetto di guardia! Nemmeno una sentinella! Traversai la consolare e cavalcai su per la salita di Pettorano, sciacciando dall’animo le cure uggiose che vi facevano capolino»

(continua) A. PERRELLA

(1) La Camicia Rossa, p. 7 (2) Caldesi. (3) Nullo, Mario, Valdesi, Lavagnoli, Zasio, Bettoni, Mori, ecc.17 in tutti, fra Ufficiali e Guide a cavallo, erano stati spediti da Garibaldi (mentre trovasi a Caserta) a premura del Maggior della Guardia Nazionale, e già Deputato al parlamento, Girolamo Pallotta, di Bojano, affinché alla testa di circa 2000 volontari, avessero soldati da Isernia i soldati Borbonici: Passando per Pontelandolfi, il Gabelliere ivi residente stimò bene avvertirli di non prendere la cosa a burla perché trattatasi di fare con i cafoni, nelle cui vene scorreva il Sannitici sangue. Anche in Cantalupo , Nullo fu avvisato di stare attento agli agguati, alle imboscate, ma egli, credendo di andare dritto alla vittoria, col solo timore del nome garibaldino, curò poco tutto ciò che gli si disse, e fu causa principale della carneficina che ne seguì. Garibaldi, fra le altre istruzioni fornite a Nullo, gli aveva data quella di non muovere verso Isernia da Bojano prima del 20 Ottobre, affinché il nemico si fosse trovato fra i Garibaldini ed il corpo d’esercito del Generale Cialdini, marciante per la via del Macerone. Invece l’ardimentoso Nullo volle innanzi tempo assalire i regii. Allorquando si impossessò di Pettorano, egli nella casa de’ signori Santoro (ove i garibaldini ebbero lieta e cordiale accoglienza ) si mise a suonare il pianoforte, senza darsi pensiero de’ Gendarmi che si avvicinavano, ne si mosse, sulle prime, quando gli Ufficiali gli fecero conoscere il pericolo.

Rimembranze Storiche

Cinquant’anni fa nel Molise fra le Termopoli del Sannio

L’orribile notte di Castelpetroso di Alfonso Perrella

tratto da

“ La Provincia di Campobasso Anno XV n. 7 del 28 Maggio 1911-pagg.1-2

Malconci e pesti, ci condussero alle carceri d’Isernia. Colà un’orribile quadro straziò il mio cuore. Sull’edificio della fontana pubblica, sita nel largo Concezione, riconobbi dalla simpatica barba alquanto lunga e bionda, fra le diverse teste recise dai rispettivi busti, e colà allineate, appartenenti alla spedizione De Luca, pochi giorni prima, quella del mio parente il bravo Giuseppe Suriano di Lupara (Molise), con gli occhi vitri e spalancati ancora che pareano chiedessero vendetta a noi poveri inermi! Lo spettacolo era atroce. Faceva rabbrividire ! Noi, rassegnandoci ad una sorte altrettanto infelice e raccapricciante, seguivamo gli sbirri. Finchè non fummo in carcere, per via, quei reazionarii ci sputavano in viso e ci prodigavano ogni altra specie d’insulti!… Verso le 2 p.m. giungemmo alla carceri, che per amore di brevità non descrivo. Alle 3 l’Ufficiale borbonico Francesco Brescia ( un poco umano, a differenza degli altri colleghi suoi ) ci fece apprestare un po’ di cibo; e potemmo rifocillarci dopo cinquantacinque ore di digiuno ! Venne la notte: i feroci cafoni cominciarono a trasportare presso le carceri legna ed ogni altra specie di combustibili:Volevano bruciarci….. E noi avremmo certamente asceso il rogo, se l’umanità dell’Ufficiale Brescia non avesse prevenuto gl’istinti barbarici di quei cafoni, facendoci di buon mattino partire per Gaeta: i garibaldini semplici a piedi, in numero di quasi centicinquanta, e noi altri ventitre ufficiali su degli chars à banc. La cordialità del sig. Brescia non la dimenticherò più. Peccato che quel buon militare dovesse servire così brutto padrone ! Dopo una giornata e più di viaggio vedemmo passare a tutta corsa una carrozza occupata da un signore e dal Vescovo Saladino. En passant, quei due avvertirono il Sig. Brescia del prossimo arrivo di Vittorio Emanuele. Aggiunsero che accelerasse la marcia, per evitare che fossimo raggiunti. Il Bravo Brescia ci raccontò il suo colloquio. Poi disse: Hodie tibi, cras mihi ! (hodie mihi cras tibi) Come volentieri vi metterei in libertà, se fossi sicuro del fatto mio !…>> Proseguirono il viaggio fino a Gaeta, ove nel giorno 4 Novembre venne loro annunciata la fucilazione perché ribelli e rei di Stato. Ma un contrordine fu dato; la fucilazione era commutatata in esilio perpetuo. Senonchè il giorno 12 un altro doveva seguirne pel quale vennero tutti messi in libertà dietro lo scambio di 1110 prigionieri fatti dal Generale Cialdini al Macerone nel dì 20 Ottobre: Da Gaeta passarono in Napoli, e di là ognuno prese la propria strada. (1)

(1) Stimo utile aggiungere che anche Garibaldi parla lungamente della spedizione di Nullo nel libro I Mille (Bologna 1874, pag 332 e seguenti) ove trovasi uno speciale capitolo intitolato Isernia. Ma la narrazione tiene molto del romantico: Bella è la descrizione topografica, del quale diamo qui un saggio: « Isernia, capitale dell’antico Sannio occidentale, potrebbesi intitolare, come Palermo, la conca d’oro. Circondata dalle alte cime del Matese, ovetesoreggiano sorgenti abbondantissime ed inesauribili da una parte, fra cui dominano in cataratte del Volturno, dall’altra completando la corona altre delle alte cime appennini che ne fanno veramente un paese incantevole, ove il turista, che fugge le aride ed infocate contrade, può trovare quanto brama di verdure, pure fresche e deliziose ad acque zampillanti e cristalline quanto quelle delle Alpi. Poscia cui fu prodica natura d’ogni suo beneficio, ecc. ecc. »

—- I caduti Garibaldini, lungo la strada Isernia Boiano, vennero finiti e spogliati, quasi tutti, durante la notte e nelle prime ore del giorno 19, dai contadini. Alcuni rimasero insepolti ed altri messi in fosse sotto o a fianco de’ ponti, fra Pettorano e Castelpetroso. Nove di essi, capitati tra i reazionari di Carpinone, furono, dopo molte sevizie, gittati in una fornace di calce e bruciati vivi ! (1)  Alle 2 pom. Del 19 il Colonnello Nullo rassegnò la raccozzata forza nella piazza di Boiano, 200 uomini muti all’appello ( dice Alberto Mario ) e 6 de’ 14 distaccati dal quartier generale del Dittatore Garibaldi. Il Nullo, la mattina del 20 tornò con i suoi a Campobasso, ove lo raggiunse un telegramma de Caserta del Generale Garibaldi, il quale gli ordinava di cedere il comando della Colonna al Governatore de Luca. Dopo la patita sconfitta, il Maggiore Valdesi, con cavalleresco sentimento ebbe ad esclamare:  Ora credo anche io puro sangue Sannitico i cafoni del Molise (2) Le emozioni di quella terribile notte sono ancora vive nel mio animo, allora appena undicenne. A sera inoltrata, cominciarono a giungere qui, in Cantalupo, le prime notizie della sconfitta de’ Garibaldini. La popolazione veglio tutta notte, in un’ansia indicibile di curiosità, di commozione, di spavento. Io, dalle finestre di casa mia, guardavo fino verso la strada d’Isernia, che serpeggiava fra i vigneti di S.Angelo in Grotte e Castelpetroso. Di tanto in tanto si vedeva il lampeggiare di una fucilata, che partiva da quei vigneti, ed immediatamente si sentiva il colpo. Certamente, un infelice fuggiasco cadeva a terra, come si verificò dopo!…. L’uomo, in tempo di guerra, diventa più feroce della belva!…. In quella triste azione, si distinse, fra gli altri, un Giovanni Bertone, di Sant’Angelo, ed un tal Angeloantonio Cifelli, Di Castelpetroso, i quali ebbero poi a vantarsi di avere uccisi non meno di dieci Garibaldini per ciascuno!….Il Cifelli, raggiunto poi dalla giustizia, scontò il suo grave fallo in lunghi e penosi anni di galera ed è ancora vivente. Io, divenuto giovanetto, ebbi ad acquistare una sciabola da ufficiale ed uno stile col fodero, raccolti, lungo lo stradale Castelpetroso – Isernia, dopo quell’eccidio. Sulla spada vi è la scritta ad acqua forte: Viva l’Italia unita. Questi due cimeli furono, lo scorso Giugno, mandati da me, in dono, a Roma, al Comitato Nazionale per la Soria del Risorgimento Italiano; del quale Comitato sono l’unico Corrispondente per tutta la Provincia di Molise. Chi avesse curiosità di conoscere qualche altro particolare di quel combattimento potrebbe leggere il libro ultimamente stampato dall’egregio mio amico cav. G. Patella, Colonnello medico della Reale Marina; libro intitolato La Legione del Matese, e del quale diedi, l’anno scorso un cenno bibliografico su questo giornale.

(continua) A. PERRELLA

(1) Così si disse allora, e si scrisse dopo sui giornali: Pur troppo, nelle guerre e nelle rivoluzioni, avvengono simili atrocità, ed anche peggio ! Credo che il crudelissimo fatto di Carpinone siasi molto esagerato. Io non ho avuto opportunità di controllarne la verita.

(1) A. Mario. La Camicia Rossa p. 225.

Rimembranze Storiche

Cinquant’anni fa nel Molise fra le Termopoli del Sannio

L’orribile notte di Castelpetroso di Alfonso Perrella

tratto da

“ La Provincia di Campobasso Anno XV n. 8 del 09 Giugno 1911

pag.1 ”

V

Stimo utile, infine, pubblicare i 2 seguenti Elenchi de’ volontari Molisani, che presero parte quasi tutti, alle spedizioni d’Isernia, o ad altri fatti relativi a quel così turbinoso anno. Il notamento non è certo completo del tutto; e sarei tenutissimo a chi si benignasse farmi gli altri nomi, che vi mancano.

Elenco di coloro che presero parte ai fatti del Settembre Ottobre 1860.

Larino – Paolo Caprice capitano, Giuseppe Falocco, Nicola Marotta, Antonio Palma, Giuseppe Lallo, (sacerdote) Luigi Naglieri, Vincenzo Minotta, Biliverto de Curtis, Antonio Lattanzio, Alessandro de Simone, Felice Agostino Ricci, Orazio Caradonio, Pietrangelo Barbieri, Giuseppe Serafino, Crescenzo Raimondi, Ferdinando Rispoli, Giuseppe Caradonio, Cesare Giancola, Pietro Antonio Minni, Francesco Caradonio, Vincenzo Canci, Vincenzo Frezza, Giovanni Mastandrea, Giuseppe Antonio Frezza, Giuseppe di Iorio, Francesco Occhionero, Telesforo Caprice, Michele Màgliano, Emilio Raimondo, Filippo Santacroce, Olindo Fallocco, Errico Serafino, Bernardino Pilone, Carlo Buccione, Pardo di Tommaso, Alessandro Magno, Giuseppe Bavota, .

San Martino in Pensilis – Costantino Sassi (tenente con menzione onorevole )Domenico Farina, Vito Nicola Facciolla, Diodato Vietri, (sacerdote) Andrea Ranieri (sacerdote) Vincenzo Sassi, Domenico de Tullio, Giuseppe Farina, Leo Belpalsi. Michelangelo Flocco Tommaso Flocco, Alessandro Perrotta, Giovanni Nardioli, Pasquale Buro, Giuseppe Lattanzio, Nicola Tanga, Donatangelo Penta, Francesco Pipino, Domenico di Lallo.

Montorio dei Frentani – Olindo Carfagnini, Settimio Caluori, Aurelio Bucci, Eugenio Caluori, Raffaele Caluori, Teodoro Carfagnini, Giovanni Carfagnini, Paolo Carfagnini, Gabriele Zappone, Ottavio Ferulano, Luigi di Salvio.

Casacalenda – Giovanni Antonio de Gennaro (maggiore) Achille Stera, Costantino Mancini, Giovanni Tavone, Pasquale e Raffaele Tota, Francesco Berardino, Raffaele Piperno, (sacerdote) Francesco Antonio Stera, Domenico Stera, Giovanni Ruggieri, Paolo de Gennaro Eugenio Giambarba, Gaetano Mastrosanti, Antonio e Giuseppe Casilli, Domenico Marinelli, Pietro Lipartiti, Maurizio Tozzi, Massimo Tata, Vincenzo Mastrocola, Enrico de Rensis, Camillo Caluori,  Luigi Novelli, Giuseppe Corsi.

Ripabottoni Nicolangelo Rezza, Benedetto Loreto, Adriano de Julio, Giuseppe Vannelli, Fortunato de Julio, Vito del Vecchio, Arcangelo Ramaglia, Filomeno Amoroso, Achille Lariccia, Ambrogio Amoroso

Morrone Gennaro Farinacci, Giuseppe Ricciuti, Luigi Soccio, Michele Julio Giuseppe Lemmi, Giovanni Fantetti, Pasquale Zaccone, Giuseppe Branca, Vincenzo Mastandrea, Gioacchino Valente, Michele Colasurdo, Luigi Romano, Achille Romano, Francesco Jorio, Luigi Jorio, Luigi Mastrocola, Paolo Innocenzo, Nicola de Nigris, Pasquale Lembo,  Angelo Romano.

Bonefro – Vincenzo Baccari, (maggiore con medaglia al valor militare) Carlo Baccari, Enrico Baccari, Michele Carnevale, Giambattista Petti, Giovanni Baccari, Michele Lalli, Giuseppe Simonelli, Matteo Fantetti, Giuseppe Valente, Francesco Marinaro, Nicola Marinaro, Filomeno Lepore, Giuseppe Silvestri, Antonio Tata, Vincenzo di Marzo, Gaspare Lepore, Abramo Pece, Giuseppe Pavonetti, Aniello Silvestri, Onofrio Montagano, Francesco Colombo, Pellegrino Lupo, Pietro Antonio Colabello, Paolo Baccari, Antonio Porrazzi, Nicola Eremita, Michelangelo Bonadies, Domenico Bonadies, Antonio Iarocci, Nicola Silvestri, Domenico Lallo.

Collotorto – Michelangelo Jorio,

San Giuliano – Vincenzo Pedicini, Luigi Pistilli, Domenico Barboris, Donato Boccardi, Giosuè Franco.

Guglionesi – Giacomo de Santis,(commissario politico, comandante la colonna dei volontari del circondario di Larino) Salvatore de Lucia, Antonio Giordano Vincenzo Pace, Nicola ed Achille Ruggiero, Diego Spada, Vincenzo Marrone, Nicola Caruso, Geremia Pietrantonio, Antonio Leone, Fedele Jonata, Vincenzo d’Onofrio, Giuseppe Miraglia, Luigi Sorella, Vincenzo Jonata, Pasquale Cacchione, Bellino d’Onofrio, Camillo de Socio, Lorenzo de Bellis. Nicola d’Anselmo, Giuseppe di Pilla, Antonio Iannone, Martino Domenico, Maida Giovanni, Iannone Vincenzo, Ierace Giuseppe, Battista Luigi, Pace Luigi, Raspa Giovanni.

Portocannone – Luigi Campofreda ( capitano ) Luigi Bruno, Antonio Muricchio, Antonio Acciaro, Gioacchino Mattarozza, Francesco Gaspare, Nicola di Tenca, Pietro Carlozzi, Michele Vitelli, Giuseppe Cardone, Luigi Lucchesi, Achille Campofreda, Michele Viola, Diego Felice Manca, Federico Cannarsa, Nicola Lavero, Costanzo Musacchio, Matteo Lucchesi, Angelo Plescia, Vincenzo Basso, Nicola ed Antonio Campofreda, Vincenzo Gaspare, Nicola Lucchesi, Nicolantonio Viola.

Termoli – Federico Barone, Ernesto de Chellis, Gaetano de Chellis, Beniamino de Gregorio, Domenico Valiante, Gaetano Marinelli, Gennaro d’Abramo, Giulio de Dominicis, Michele Mascilongo, Achille de Vitale, Giovanni Perrotta, Giovanni de Renzis, Federico Campolieto, Luigi Campolieto, Gennaro de Chellis, Pasquale de Chellis, Luca Compagnone, Domenico Colonna, Basso Maria Barone, Achille Salerno, Michele de Gregorio, Marcello Pignoni, Biase de Renzis, Gennaro Perrotta, Antonio de Renzis,

Campomarino – Giuseppe Iacovelli.

Rotello – Enrico Benevento,(maggiore comandante la 2. colonna) Enrico de Stefano, (con medaglia al valor militare) Giuseppe Perrotta, Ruggiero Colavecchio, Nicola Colucci, Nicola Matteo Terzano, Michele Montuori, Michele Ianilo, Francesco Antonio Salomone, Bernardino Petti, Pietro Biondi, Celestino Garillo, Michelangelo Caterino, Andre Luccitelli ,Federico Petti, Antonio Iannacci, Michele d’Aloia, Crisostomo Buccino, Michele Iacovazzi, Luigi Gentile, Michele Saltarelli, Vincenzo Campolieto.

Civitacampomarano – Domenico Colonna, Arcangelo di Paola, Raffaele Caprara, Teodoro Cuoco, Ascanio Alderico, Elviro d’Ascanio, Michele Paolucci, Giuseppe di Paola, Pasquale di Paola, Pasquale Caruso, Giuseppe Carolino, Giuseppe Compagno, Giuseppe Nicola Natelli, Alessandro Emanuele, Giosuè Pardi, Beniamino Pardi, Salomone Pardi, Vincenzo di Salvo, Vincenzo Rosa, Liborio Pardi, Giuseppe Altobelli, Luigi Trivisonni, Felice Camparone, Francesco Saverio Marziotti, Giorgio d’Aloisio, Donato Francesco, Alessandro di Muino, Francesco Villani, Pasquale di Paola, Francesco Pepe, Ludovico di Paola, Francesco Matteo.

Castelbottaccio – Giuseppe de Lisio.

Castellino – Francesco de Lisio, Anselmo Venditillo, Luigi Fratangelo, Giovanni Storto, Antonio de Fabio, Pietro Storto, Angelo Michele de Leo, Domenicantonio di Fabio.

Palata – Enrico Ricciardi.

Guardialfiera – Vincenzo de Leo, Pietro Torzillo, Marco Vincenzo Mastrocola, Francesco Caso, Leonardo Principe, Nicola Gentile,Costanzo Bucci, Igino Montano, Enrico Reicco, Bernardino Loreto, Ernesto de Lisio.

Lupara – Giuseppe Suriani, Pasquale Coletta, Emmanuele Masone, Teodoro Morrone, Giacomo Donato d’Alessio, Onofrio Gaudenzio, Andrea Lembo, Gabriele Salvatore, Giuseppe Antonio Cantelli, Giuseppe Antonio Serafino.

Lucito – Emmanuele Marone, (capitano medico) Domenico Minicucci, Domenico de Rubertis, Giuseppe Loffredo, Domenico Varrato, Francesco Grignuoli, Aurelio Fiore, Giulio Loffredo, Beniamino Pettinicchio, Cosmo Ianni-Roberto, Michelangelo de Rubertis, Scipione Muricchio, Pasquale Lombardi, Matteo Centomolle, Raffaele Campopiano, Nicolangelo da Visis, Ettore d’Onofrio, Giuseppe Nicola Cuoco, Michele Minicucci, Giuseppe Battista.

Il governatore della provincia: Nicola de Luca—Il commissario politico: G. de Santis—Il maggiore: Enrico Benevento.

Triventi – Raffaele Ciafardini.

Elenco dei volontari del circondario di Campobasso, che unitamente a quelli del circondario di Larino presero parte al fatto d’armi contro i ribelli d’Isernia, avvenuto il giorno 4 ottobre 1860.

Campobasso – Nicola de Luca ( governatore della provincia e comandante della 2 colonne di Larino e Campobasso) ,Federico Pistilli, Domenico Bellini, Federico Filipponi, Leopoldo Colucci, Filippo Barone Iapoce, Eugenio Fiorilli, Domenico Eliseo, Francesco Pietrunti, Giuseppe Rezza, Raffaele Trotta, Giovanni Morbillo, Achille Doria, Filoteo Pace, Luigi di Iorio, Giuseppe Antonio Angiolilli, Giustino Bonucci, Alfonso Scognamillo, Giovanni Cerio, Domenico Bonarosa, Pasquale Iosa, Domenico Taddeo, Gaetano Frangipani, Raffaele Bracone, Michele de Socio, Federico Pelosi, Francesco Paolo Romano, Pasquale de Socio, Francesco Coppola, Bartolomeo Coppola, Tommaso Petrunti, Ascanio Gravina, Gaetano Trotta, Nicola Maria Manocchio, Domenicangelo Mastropaolo, Gaetano Poce, Francesco Lembo, Eduardo del Grosso, Gaetano Palazzo, Pompilio de Libero, Giovanni de Simone, Michele Colitti, Giuseppe Angiolillo, Antonio Nicastro, Raffaele Trivisonno, Michele de Santis, Domenico Petrunti, Pasquale Lerro, Domenico Tirabasso, Giovanni Mastropietro, Gregorio Eliseo, Pasquale Fede, Nicola Santangelo, Gennaro Zantonelli, Domenico Mastropietro, Pasquale de Toro, Gregorio Palombo, Giuseppe Gravina, Ferdinando Mastropaolo, Giuseppe Ferrante, Emilio Altobello, Paolo Eliseo, Saverio de Gregorio, Pompeo de Capoa, Francesco Paolo Oglio, Agostino Mastropaolo, Giovanni Ciaramella, Francesco Rinaldi, Giuseppe Gallo, Gennaro Massa, Pasquale Mancini, Giuseppe d’Angelo, Giuseppe d’Innocenzio, Federico Grano, Francesco de Matteis, Gennaro Antonello, Giuseppe Barbato, Giuseppe Grani, Luigi Passarelli, Alessandro Villani, Enrico de Ricco, Giovanni Mignogna, Erminio Gammieri, Ferdinando Iannetta, Francesco Libertucci, Gaetano Trivisonno, Giuseppe Lapiccirella, Giuseppe Focareta, Raffaele de Simone, Eugenio Colitti, Oreste Gravina, Fortunato Aurisano, Francesco di Ricco, Gaetano Zita, Angelo Santoro, Raffaele Zoccolo, Alberto Bonucci, Luigi de Rubertis, Francesco d’Angelo, Federico Bonucci, Carlo Morbilli, Francesco Mastropaolo, Nicola Petrillo, Paolo Santacroce, Tullio d’Astolfo, Eugenio Zita, Andrea Terzano, Francesco Amicantonio, Salvatore Latessa, Michelangelo Eliseo, Angelo Colitti, De Libero Basilio, Francesco duca Frangipani, Giacomo de Marco, Domenicangelo Picucci, Erennio de Rubertis, Gaetano Orlandi, Francesco Paolo Rinaldi, Francesco Paolo Paolone, Domenico Spetrini, Carlo Cacullo, Enrico Filipponi, Carlo de Nigris, Giovanni Baldini, Donato Cassella, Domenico Antonio Minni, Giovanni Vavolo, Vincenzo Palladino, Francesco Matticola, Nicola de Nigris, Pietro de Nigris, Cesare de Nigris.

Boiano – Nicola Casale, Benedetto de Marco, Saverio Picchiello, Ottavio Spina, Salvatore Ialonga, Domenico Ferrara, Giovanni Perrella, Costantino Picorelli.

Petrella – Francesco Fede, Antonio Cannavina, Fedele Carissimi, Francesco Ratino, Giuseppe Carissimi, Gaetano Ruscillo, Carlo Fede, Nicola Amoroso, Francesco Marinello, Vito de Stefano, Felice Marasca,  Nicola Lallo, Gennaro Carissimi, Pietrantonio Palmera.

Campodipietra – Teodosio Montino, Pietro Carlozzi, Teodoro Montino, Rinaldo Ricciardi, Carlo Carloni, Michele Franco.

S. Elia a Pianisi – Alessandro Palma, Luigi d’Adamo.

S. Giuliano di Sepino – Giacomo Pistillo, Nicola Maria Pusino, Gennaro Calabrese, Michele Gallo, Antonio Ricciardi, Francesco Pistillo, Domenicangelo Albino.

Sepino – Francesco Antoniani, Gioacchino Chiarizia, Alessandro Finizia, Michele Mucci, Flavio Caserta, Antonio Finelli, Tommaso Rinaldi, Antonio Bruni, Michele Martini, Pan?lo Brini, Giulio Fascelli, Antonio Mucci, Eduardo Roberto,Sebastiano Salvatore.

Mirabello – Giovanni Antonio Verdone, Vincenzo Garzia, Francesco Saverio Fantanico, Giuseppe Baranello, Muzio Pistilli, Raffaele Spicciati, Emmanuele Capalozzi, Giovanni d’Angelo, Domenico Margiasse.

Sassinoro – Giovanni de Angelis, Michele de Angelis, Lorenzo de Angelis, Nicola Mastracchio, Pellegrino di Mello, Rocco della Camera, Gius. Arietano, Domenico Gambarota, Pellegrino Santucci, Giambattista di Mello, Ferdinando Mastracchio.

Ferrazzano – Andrea Bisaccia, Erminio Cicchesi, Vincenzo Cardillo, Vincenzo Mastrogiovanni, Nicola Cicchesi, Filomeno Baranello, Pasquale Palladino, Luigi Albino, Michele di Iorio,.

S. Lupo – ( attualmente in provincia di Benevento, apparteneva prima a Campobasso) Celestino Saccone.

Monacilione – Francesco de Marziis, Modestino Maselli.

Pietracatella – Francesco Maselli.

Limonano – Beniamino Giannantonio.

Castropignano – Amilcare Evangelista.

Il governatore della provincia; Nicola de Luca – il commissario politico; Giacomo de Santis – il maggiore: Enrico Benevento.

                                                                                                      A. Perrella

Rimembranze Storiche

Cinquant’anni fa nel Molise di Alfonso Perrella

tratto da

“ La Provincia di Campobasso Anno XV n. 14 del 27 Agosto 1911 pagg.1-2 ”

Capo III

La marcia dell’esercito Piemontese verso Napoli, la battaglia al macerone, il Re Vittorio Emanuele II in Isernia e in Venafro, ed altre notizie storiche, politiche e strategiche relative a quei tempi.

Sommario

I. La profezia di Balbo sul 1860 – Lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e suoi sentimenti repubblicani, vinti poi, da Cavour, anche in Napoli – Il grido di dolore delle Province Meridionali – L’Unità Italiana vagheggiata anche negli antichi tempi.

II. Il Re riceve la Deputazione Napoletana e passa il Tronto – Itinerario delle 3 Divisioni Piemontesi – Incontro del Colonnello Materazzo col Governatore De Luca in Casteldisangro – E di costui con Cialdini a Sulmona – Il Ministro Villamarina a Larino.

III. Il primo incontro fra i Piemontesi ed i Borbonici – La battaglia del Macerone narrata dal Delli Franci

IV. La stessa battaglia narrata dal Costantini e dal Mario – Cialdini in Isernia – I primi Piemontesi in Cantalupo.

V. Cialdini a Venafro – Sue disposizioni – Dimostrazioni Garibaldine in Campobasso – Il gran chiasso in quel teatro – Iil telegramma di Cialdini al Governatore De Luca – Viva Vittorio Emanuele e Viva Garibaldi – Telegramma di Garibaldi a Nullo ad altro al De Luca. – Il Plebiscito nel Regno – In Larino

VI. Il Re Vittorio Emanuele entra nella prov. di Molise – Deputazioni che gli vanno incontro – Entra in Isernia – Un uomo che vorrebbe uccidere Francesco II con una pugnale – Parola del Re – Riceve la deputazione di Campobasso e di Larino – Un’avventura amorosa – Le truppe accampate a Venafro.

VII. Il RE Vittorio in Venafro – L’incontro con la signora Cimorelli – Ricevimento di Deputazioni – Partenza del Re – Sull’incontro con Garibaldi.

VIII. Mosse strategiche delle truppe Borboniche – I Generali Ritucci e Salzano – Lettera di Cialdini a Salzano per un colloquio fra gli avamposti delle due armate – Il Ministro della guerra emana, da Gaeta, un Memorandum contro la invasione Piemontese – Altro del Generale ….. – Altri movimenti di truppe Piemontesi da Venafro a Teano – Incendio all’Ospedale di Venafro – Rapporto di Farini a Cavour sulla reazione d’Isernia – Scarcerazioni in Sessa de’ Garibaldini della Colonna Nullo, fatti prigionieri presso Isernia Arresti in Venafro per ordine del De Luca – Gl’infermi nell’Ospedale di Venafro.

IX. Osservazioni sui fucilati per ordine di Cialdini.

Lo storico Cesare Balbo, nel suo interessante libro intitolato: La situazione politica nel 1846 (Edizione Le Monnier, pag.348) ebbe a scrivere:<……E badate a ciò, o miei reggitori, si vivrà in tal divisione, la quale, ora al sorgere del 1847 è svantaggiosissima lal’Europa occidentale, men forte, meno unita; ma in tal divisione che, se sia vera la potenza dell’opinione, della civiltà, della libertà o dell’indipendenza della vera carità universale, dalla Cristianità, si farà più vantaggiosa nel corso del 1847 che non ora, più vantaggiosa nel 1848 che nel 1847, più più nel 1849 che nel 1848, più nel 1850 che nel 1849, e via più nei dieci anni che rimangono ad arrivare intorno a quel 1860, che concentra in sè tanto avvenire. Non vi sgomentate nel 1847° in qualunque altro di questi anni nomati, se non sarà potente la progressione, se parrà fermarsi od anche dare addietro. Io protesto contro le apparenze, contro agli agomenti momentanei. Date tempo all’invincibil tempo; date solamente quell’atomo di 12 a 18 anni; ed io, presi agio d’intieri secoli non parere stolto profeta, non prendo già qui che pochi anni. E, come già m’ingannai nello sperar troppo lento, forse m’ingannerò al medesimo modo anche qui. >> Il Balbo fu buon profeta, perché effettivamente, nell’anno da lui indicato cioè il 1860, ebbero lieto compimento le aspirazioni, i desideri, i voti di tanti milioni d’Italiani, i quali indipendente ed unita la loro Gran Patria. Accennerò, in breve, i fatti che precedettero il grande avvenimento. Garibaldi, sbarcato a Marsala, l’11 Maggio 1860, con i suoi 1000, aveva, di accordo con Mazzini, Crispi, Bertani ed altri, la intenzione di proclamare la Repubblica. Ma Cavour, durante quella celebre campagna, inviò al Generale vari abili emissari, i quali, alla fine, lo persuasero a dichiarare l’Unità Italiana sotto lo scettro di Casa Savoia. E così, il nucleo repubblicano, fermatosi pare in Napoli, dopo aver molto resistito, ebbe ad indebolirsi, a disperdersi, associandosi, man mano, alla idea predominante nella grande maggioranza degl’Italiani. Continuando sempre la Diplomazia a lavorare in segreto per l’annessione del Regno di Napoli al Piemonte, e maturate bene le cose, il Re Vittorio E. II ebbe a dichiarare ,solennemente, alla Camera Subalpina, di non poter più oltre resistere al grido di dolore, che, di continuo gli veniva dalle Province Meridionali, e perciò averr deciso correre al loro soccorso. La camera battè le mani, approvando pienamente quella audace politica, come fece pure Napoleone III. E sua Maestà non tardò a muoversi per capitanare l’esercito Piemontese, non buona parte del quale già da un pezzo, trovasi nell’Umbria e nelle Marche, sotto la guida del Generale Cialdini. Si stava, così, maturando alla fine, e compiendo il generoso disegno dell’Unità del bel paese; Unità tanto vagheggiata e tentatat dagli antichi Sanniti, Marsi. Marruccini ed altri popoli, nella famosa guerra Italica o Sociale. La quale patriottica idea era persa, dopo molti secoli, rinnovata, ma, per le avverse condizioni, neppure tentatat da Gioacchino Murat, di accordo col nostro Giuseppe Zurlo, suo Ministro e Consigliere.

/(continia) A. Perrella .

Rimembranze Storiche Cinquant’anni fa nel Molise di Alfonso Perrella

tratto da

“ La Provincia di Campobasso Anno XV n. 15 del 16 Settembre1911-pagg.1-2 ”

II

Sua Maestà V. E., dopo averne avvisato, con telegramma, Napoleone III, si decideva a passare il Tronto, lanciando, in data 9 Ottobre 1860, un Proclama ai (a’) Popoli dell’Italia Meridionale, dicendo loro: << Io non vengo ad imporre la mia volontà, ma a far rispettare la vostra >> (1) Indi partiva da Ancona, ed a piccole giornate, per dare tempo che le province Napoletane si pronunciassero per l’annessione. ( N. Nisco: Il Generale Cialdini ed i suoi tempi – Napoli 1893 p. 202). Il 12 Ottobre il Re ricevette a Grottammare una Deputazione di Napoletani, composta da Ruggiero Bonghi, Luigi Settembrini, Carlo Capomazza, Michele Baldacchini ed altri, i quali lo pregarono di sollecitare la marcia per Napoli. La detta Deputazione, non potendo passare per la via più breve, Isernia, perché occupata dalle truppe Borboniche, dovette allungare di molto il viaggio, andando per Livorno, Bologna, Ancona, finchè raggiunse il Re a Grottammare. V. E. accolse festosamente la Deputazione, promettendo andar subito nel Regno, e premurando di fare il Plebiscito. Ma, incalzando sempre più gli avvenimenti, il Re, rotti gl’ indugi, passava il Tronto alle ore 10 del 15 Ottobre ed alle 3 entrava a Giulianova. Su quella celebre marcia ecco ciò che scrive B. Costantini nel libro: Azione e Reazione, notizie storiche – politiche degli Abruzzi ecc. (Chieti 1902 .99): << Da Giulianova, il Re passo a Pescara, quindi a Chieti, Sulmona, Isernia, ed in ultimo a Venafro, e paesi intermedi…… Non potendo condurre nel Napoletano tutto l’esercito, di cui una porzione non poten allontanarsi dalla sua base di operazione, dispose l’invio dell’esercito a colonne e per le tre vie, una cioè da Rieti doveva passare per Autrodoco – Aquila – Popoli – Sulmona dove si sarebbe congiunta con la seconda colonna, in cui stava il Re, che costeggiando l’Adriatico avrebbe risalita in valle del Pescara per riuscire a Casteldisangro. La terza colonna, comandata da Cialdini, avrebbe anche costeggiata la marina fino a Pescara: ma poi a Pescara avrebbe ripiegato per la via di Chieti – Casoli –Palena – Casteldosangro, per impadronirsi quindi del passo e delle alture del Macerone, e farsi forte colassù , prima che i Borbonici, che si sapevano in marcia da Venafro ad Isernia, occupassero la montagna, impedendo così il ricongiungersi a’ volontari Garibaldini. Il passaggio delle truppe si compì con una precisione ammirevole. Vittorio E. , dovunque si fermò, fu accolto con entusiasmo. Mentre il Re Vittorio stava ancora in Perugia, fu inviato da colà il Colonnello Materazzo, in furia e fretta con l’incarico di raggiungere Napoli, per informarsi del vero stato delle cose. Egli, giunto in Casteldisangro, vi trovo il Governatore del Molise D. Nicola De Luca, costretto con i suoi volontari abbandonare Isernia il 4 Ottobre. IL De Luca ???? parla di questo incontro nel << Breve cenno della spedizione d’Isernia>> (del quale posseggo una copia manoscritta, autenticata dal Generale Cosenza quando era Ministro del Governo provvisorio in Napoli): << Egli ( il Materazzo) voleva proseguire ma Isernia gli chiudeva il passo, come muro di bronzo. Avea missione di interrogarmi e prendere il mio avviso. Io le detti franco: richieda immediata la entrata delle truppe Regie negli Abruzzi come unica speranza di salvezza, e l’obbligai a partire 2 ore dopo pregandolo ad affrettare la corsa. Cinque giorni dopo, Cialdini era già a Sulmona: lo vidi, strinsi la mano al prode, e mi determinai a rientrare in Provincia per la strada de’ monti, poiché la mia missione era compita, gli Abruzzi ed il Molise erano salvi, e l’esercito Meridionale sicorato alle spalle; Ed era ben tempo che giungesse il Cialdini, perché già il Generale Scotti, con 6000 uomini di riforma ‘ muoveva da Isernia per venirci ad attaccare. Cialdini Lo incontra al Macerone, ove lo vinse >> Stimo utile aggiungere che, anche in quel frattempo, il Marchese Villamarina, Ambasciatore del Piemonte presso il Governo Napoletano, volendo andare incontro al Re Vittorio, fu costretto allungare di molto il viaggio, percorrendo la strada di Campobasso, anziché quella d’Isernia, occupata da numerosa truppa Borbonica, come già si è detto. Passando per Larino, quel Sindaco (il patriotico Sig. Spiridione Caprice) gli presentò una petizione Del Consiglio Comunale nella quale si riconosceva Vittorio Emanuele come Re d’Italia. Il Villamarina accolse con molto gradimento quel Deliberato, e promise presentarla subito al Re; tanto più che era la prima di tal genere, che a lui fosse stata consegnata. Di questa missione del Villamarina, parla pure l’Ammiraglio Persano dicendo che partì da Napoli il giorno 1? Ottobre ed arrivò al campo superando ogni intoppo. (Diario privato – politico – militare – Torino 1880. p. 345 e 370 (continua) A. Perrella

(1) Chi avesse vaghezza di leggere il Proclama mitico può trovarlo nel libro del Persano e Diario privato politico >> Torino 1880, p. 50.

Rimembranze Storiche Cinquant’anni fa nel Molise di Alfonso Perrella

tratto da

“ La Provincia di Campobasso Anno XV n. 16 del 3 Ottobre1911

p.1 ”

III

Eccoci ora allo scontro del Macerone, che come battaglia non ha molta importanza, ma come fatto politico, invece, ne ha una grandissima, perchè, fra quelle romantiche balze, con l’urto de’ due eserciti, si ebbe anche l’urto delle due politiche, cioè fra le antiche e le nuove idee; ed essendo queste ultime riuscite vittoriose, da quel momento ed in quel luogo può quasi dirsi che ebbe veramente inizio la formazione e costituzione della Gran Patria Italiana, il nuovo Governo col Re Galantuomo Vitt. Em. II; come confermò il Plebiscito nel seguente giorno 21. Giovanni Delli Franci, Colonnello di Stato Maggiore nell’esercito Borbonico, così scriveva nell’interessanta libro intitolato: << Cronaca della campagna di Autunno del 1860, fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano dell’esercito Napolitano >> ( Napoli 1870, Vol. 2 p. 157). <<All’alba di questo giorno ( 10 Ottobre 1860 )il Generale Scotti, reduce da Venafro, ordinò al De Liquori di attaccare sul Monte Macerone gli armati nemici, i quali diceva essere massa di gente di (non leggibile) poco o minor conto. Non valsero a cangiare il propoponimento di lui le parole del De Liquori, e di quanti erano nel paese onesti cittadini che affermavano quei nemici non comporsi di masse. Perchè 634 Gendarmi e 240 volontari, capitanati dal De Liquori, marciarono per attaccar zuffa sul Macerone senza sapere qual si fosse l’oste avversa che avrebbero incontrato, e come fosse a campo. Questo piccolo numero di soldati e di volontari fu diviso in tre colonne, una per ciascun lato, e l’ultima sulla via maestra appoggiata da due cannoni. Esse non tardarono ad imbartersi nel nemico, ed a 7 ore del mattino si cominciò la pugna da ambe le parti. I Gendarmi e volontari, spiegati in ordine aperto senza sostegno, perchè certi di essere sussidiati dal I. Reggimento di fanti, aggredirono sì audacemente i posti avanzati degli avversari che, in breve orali ripiegarono. Il nemico credeva di essere assalito da numerose truppe, e per accertarsene, difendendosi, artificiosamente indietreggiava. A 9 ore della stessa mattina giunse sul terreno del combattimento il 1. Reggimento di fanti col Generale Scotti ed il capo dello Stato Maggiore di lui, Colonnello Gagliardi, il quale andò subito ove viva era la pugna, e lo Scotti, che aveva la divisa e non la mente di Generale, e che aveva mandato i soldati a guerreggiare per essere vinti ed uccisi, rimasto solo si appressò al sostegno più vicino de’suoi che stava sulla via consolare. Il nemico, intando raffirzò di molto le file de’ suoi combattenti, e fece trovare le artiglierie rigate, a soffocare le quali non eranocerto acconci i due cannoni di montagna del De Liquori. Il combattimento addivenne allora assai ineguale, che le forze Napolitane ebbero a pugnare con oltre dieci volte maggiori di loro: Il Generale Scotti troppo tardi si avvedeva di avere a fronte l’esercito Piemontese, il quale, forte di numero e condotto dal Re Vittorio Emanuele, invadeva, senza piena ragione, un Regno amico. Fra tanto i Napolitani, non potendo resistere alla superchiante ???? nemica, cominciarono a ritirarsi. E fattisi certi gli avversari che combattevano contro soldaresca di scarso numero, la investirono gagliardamente e la inseguirono. Essa, contrastando palmo apalmo il terreno, piegava verso Isernia, ma accerchiata da numerosi fanti e cavalieri nemici caddero prigione 400 soldati del 1. de’ fanti, il Tenente Colonnello Auriemma, e gran parte degli ufficiali di lui. Nel tempo stesso uno squadrone de’ lancieri di Novara, caricando luogbasso la via consolare quel de’ Napolitani, che stavano più indietro per essere di riscossa, fece prigione il Generale Scotti, il Colonnello Gagliardi, il De Liquori, tre ufficiali di Gendarmeria e 125 Gendarmi. Il restante della truppa Napolitana riparò su pei monti in Isernia e poscia in Teano. Di questa infausta guerra fu tosto informato il Generale Echaniz, il quale da Teano mandò subito un plotone di cavalleria in Venafro per averne più certe novelle. Il Re Francesco fu ancora prestamente ragguagliato della mala sorte toccata alle milizie d’Isernia per colpa dello Scotti, e ne tenne avvisato il Ritucci, il quale ricevuta la notizia spiacevole, dal Re, dallo Echaniz, e dal Gargiulo, Capitano di Gendarmeria, propose al Sovrano che tutto il corpo d’esercito si ponesse in cammino per Teano, ed ivi campegginase. Ed il Re, rispostogli di consultare su di ciò lo stato Maggiore di lui e di operare subito e bene, gli ordinò di mandare verso Venafro ub ufficiale di stato Maggiore per incontrare le truppe che si ritiravano da quei luoghi e farle ripiegare in Teano, affinchè, unite alla brigata del Grenet, guardassero meglio quella posizione. Il che per opera del Tenente Colonnello Giobbe, fu immediatamente effettuito >>. Fin qui Delle Franci. Credo utile aggiungere che i Napolitani, i quali combattettero al Macerone, sommavano al numero di 1674 uomini, cioè 800 del 1. Reggimento fanti, 634 o 694 Gendarmi e 240 volontari. Il Generale Scotti fu fatto prigioniero mentre stavasene nel suo cocchio per sapere notizie della guerra che conbattevano le sue truppe, e nel cocchio stesso fu condotto al quartier generale del nemico. I tre ufficiali di Gendarmeria, che caddero prigionieri dell’ ??????? furono i capitani Puzio e Toran ( e quest’ultimo era altresì ferito sul capo) ed il Tenente Pesapia. De’ Piemontesi si distinse nel detto combattimento il Reggimento Novara Cavalleria, e specialmente lo squadrone comandato dal Capitano Di Moniglio, che si ebbe la medaglia di oro per una brillante carica. Con questa battaglia ebbe fine la reazione nel circondario d’Isernia, che costo 1245 vittime e soldati delle due armate beligeranti. (continua) A. Perrella

Rimembranze Storiche Cinquant’anni fa nel Molise di Alfonso Perrella

tratto da

“ La Provincia di Campobasso Anno XV n. 17 del 14 Ottobre 1911

p.2 “

IV

Dopo aver inteso uno scrittore Borbonico, sentiamo ora ciò che, sullo stesso argomento, dice un liberale, cioè il Costantini nel già citato suo bel libro (p. 128 e seg. ), anche perchè da altri particolari: << Prima di V. E., gia a Chieti erano passate le 2 Legioni di Cialdini, il quale aveva fretta di occupare il passo del Macerone. Precedeva il Corpo di esercito di un alloggiamento, il Colonnello Paolo Griffini o Gaffini o Goffini con 2 Battaglioni di Bersaglieri, 2 compagnie di Zappatori del Genio, 2 Reggimenti di Cavalleria e 4 cannoni. Egli doveva fermare il 19, a Rionero, che è a metà nella vallata della Vandra; ma, considerando la importanza di quel passo, che decideva delle sorti della guerra, e divisando che era pericolo indugiare, senza temere il rischio in cui si metteva, disobbedì al Generale, e partì per Rionero. Arrivato al torrente Vandra, vi lasciò a guardia la Cavalleria e Gli Zappatori, e sul far dell’alba incomunciò l’erta.. L’esercito sardo / se devo credere ad un testimone oculare, senza tener conto di qualche compiacente scrittore che, in seguito volle ad ogni costo giustificare le mosse dei Piemontesi) fu veduto dai Borbonici che erano, per la maggior parte, giunti in cima al monte. Essi ammontavano a tremila soldati di ordinanza ed altrettanti partigiani con una batteria, ed erano comandati dal Generale Douglas – Scotti di Piacenza. I soldati Piemontesi non erano giunti a metà della costa, quando i Borbonici incominciarono il fuoco. Vi fu quindi non poco timore; ma si cerco di resistere, per quanto era possibile, al fuoco del resto pochissimo animato dei nemici. Il Griffini, fatto accorto del pericolo, e non potendo ritirarsi, già aveva mandato ad avvertire il Generale in capo. Cialdini gli rispose che se si fosse subito recato al quartiere generale per essere sottoposto a consiglio di guerra. IL Griifini, di rimando, gli fè conoscere che avrebbe obbedito, però dopo il combattimento, ma si fosse intanto affrettato a soccorrerlo. Il combattimento durava da lunga pezza; l’esercito di Vittorio resisteva, il Griffini era da per tutto, ma il piombo nemico faceva strage tra le file. Intando ecco che giunge dopo il mezzogiorno Cialdini con La Brigata Regina, cui seguivano alquanti cavalli lancieri di Novara. Dalle difese i sardi passanp anbito alle offese, facendo impeto da tre lati. I Borbonici piegano sparpagliandosi, nel mentre che i soldati d’ordinanza ai ritraggono per ricomporsi sulla strada d’Isernia. Ma, pronto, l’animoso Griffini, avuto ai suoi cenni lo squadrone di cavalleria, rovinò addosso ai BOrbonici; e fu allora che si vide tutto l’esercito disfarsi delle armi e darsi a fuga o prigione. Ottocento soldati, trentasette ufficiali, fra cui cinque colonnelli e lo stesso generale Scotti, due pezzi di artiglieria e la bandiera del 1° Reggimento vennero nelle mani del vincitore. Il Griffini, per tali atti di valore fu assolto dalla disubbidienza, e ricevette del Re degna onoranza. La rotta del Macerone, fu un colpo mortale alla causa borbonica. Io l’ho raccontata in breve cone ho potuto riassumerla dagli scrittori del tempo, perchè la battaglia avvenne poco al di llà dei confini della nostra Regione, e vi presero parte non pochi nostri patrioti che formavano la schiera detta del Gran Sasso, comandata dal maggiore Tripoti.>> Mi piace in ultimo, riportare sullo stesso argomento, una breve relazione, scritta, a forma di lettera, da un testimone oculare, che prese anzi parte a quella zuffa, fra i Bersaglieri. <<Ella mi chiede dei dettagli sul combattimento del Macerone avvenuto il 20 ottobre 1860, e non poteva dirigersi meglio, poichè storici, col solo appoggio di una tradizione spesse volte errano, scrivono cose inverosimili, come si consta aver letto in alcune opere. Ecco come fu: nella notte del 19, il sesto e settimo battaglione bersaglieri dovevano fare una tappa a Casteldisangro, ma un ordine del quartier generale ci fece proseguire la marcia forzata in direzione d’Isernia. Ricordo che in questa marcia, avanzammo perfino la cavalleria. All’alba del 20 giungemmo alla vetta del monte Macerone e ci fermammo. Alla sinistra tenevamo un battaglione del 10° Reggimento Infanteria (Brigata Regina). Il nostro riposo non durò molto. Alle 7 ½ scorgemmo al piè della collina l’avanzarsi di un piccolo esercito borbonico , e che si è calcolato in sei mila uomini più o meno con 4 pezzi di artiglieria di montagna. Lo si vide dividere in due colonne involgenti, per prenderci nel mezzo.L’esiguo numero delle nostre forze pareva dare maggior lena all’avversario, poichè si avanzava a tamburo battente con un regolare corpo di musica, che rimase in retroguardia. Dalla nostra parte l’effettivo dei combattenti non arrivava certamente a millecinquecento uomini. Circa le 8 le colonne borboniche giunsero presso a poco a 60 passi sulla nostra linea, senza essere molestate, quando di colpo, i nostri irrompono ad una carica alla baionetta, tanto decisiva che i borbonici rimasero sorpresi. Ferve l’azione d’ambo i lati e l’artiglieria borbonica coi suoi sbrupnela mi ostilizzava nel centro dove io era. Per sorte la muraglia o mitraglia non aveva ancora fatto breccia nei miei uomini; vedendo poi che a me toccava vincere quell’arma terribile non esitai un istante. I mie bersaglieri erano eroi sperimentati e ci lanciammo sopra i cannoni. La lotta colla riserva borbonica e gli artiglieri durò fino alle 10 ½ arrivò a spron battuto il Colonnello Pallavicini alla testa di uno squadrone di lancieri di Novara, e seguì la pista dello Stato Maggiore Borbonico, raggiungendolo vicino Isernia. Alle 11 ½ il Colonnello Pallavicini apparve nuovamente di ritorno, però col Generale Scotti, borbonico, fatto prigioniero insieme al di lui Stato Maggiore. Devo ricordare un atto cavalleresco del Generale nemico. Di passaggio vicino ai pezzi di artiglieria, dove stavo io con i mie bersaglieri contemplando il bottino di guerra, Scotti si tolse il Kepì e ci saluto dicendo: vi saluto bersaglieri, non conosco soldati più valenti di voi. Voglio aggiungere che, del piccolo esercito borbonicoimpegnato nell’azione del monte Macerone non scappo nessun soldato, vi fu solo sbandamento e molti furono fatti prigionieri. Ecco come finì il combattimento>>. Questa lettera trovasi stampata a pag. 98-101 dell’interessante libro intitolato: Campanile, Memorie Abruzzesi di M. Somma Metèlo, 2. Edizione, edita a Tuecman Repubblica Argentina, 1910. Autore della lettera e il Sig. Antonio Moria, il quale trovassi alla zuffa e come furiere, a capo de’ suoi 35 bersaglieri, caricò alla baionetta e s’imposesso de’ 4 cannoni. Anche il Generale B. Orero o Grero, che trovossi come tenente fra le truppe Piemontesi, ha descritto quella battaglia nell’interessante suo recente libro intitolato: Da Pesaro a Messina, Torino – Genoba – 1905 (p.121 e seg.) L’avanguardia Piemontese entro in Isernia poco dopo mezzodì, accolta entusiasticamente da’ pochi cittadini rimastivi, essendone fuggiti, poche ore prima, moltissimi, fra cui il Vescovo Monsignor Saladino, la famiglia De Lellis, ed altri, diretti verso Gaeta.Man mano vi arrivarono altre numerose truppe, e verso le 5 pom: anche il Generale Cialdini col suo Stato Maggiore. Egli prende alloggio nel palazzo de’  Signori Laurelli. Trovasi pure in Isernia il Marchese di Villamarina, il quale, dopo di avere incontrato il Re, ed infomatolo del vero stato di cose in Napoli, erasi molto all’avanguardia Piemontese. Infine, come bricciola storica mi piace ricordare che i primi soldati Piemontesi (una ventina con 2 Ufficiali ) appartenenti al Treso, vennero qui, in Cantalupo, nel giorno 22 Ottobre, e poi anche nè seguenti, per comperare foraggi, specialmente fieno, che, senza punto lesinare pagarono all’alto prezzo di lire 10 il cantaio o centaio. E, fra gli altri, ne vendè molto D. Ferdinando De Chiro, che coltivava a lupinella la maggior parte de’ suoi terreni. In quella occasione, si videro, la prima volta. i marenghi, che furono presi con una certa diffidenza, ignorandorsene il preciso valore.

(continua) A. Perrella